Svevo e Italo, il rapporto fra Ettore Schmitz e la letteratura italiana

Lo studio di Francesca Riva individua l’influsso dei grandi classici della Penisola sulla scrittura sveviana, ove fioccano riferimenti a Dante, Petrarca, Manzoni

Cristina Benussi
Aron Hector Schmitz, ovvero Italo Svevo
Aron Hector Schmitz, ovvero Italo Svevo

Aperto ai più diversi contenuti culturali, quand’anche in contrasto tra loro, Italo Svevo è in questo senso scrittore decisamente mitteleuropeo: “eclettico” lo definisce Francesca Riva nel suo bel saggio “Svevo ma anche Italo. Fonti italiane in Svevo e altri saggi” (interlinea, pp. 178, euro 20) sorprendendolo nel suo intenso dialogo con la letteratura italiana. La studiosa fa affiorare le tracce di letture fatte dallo scrittore che, studi commerciali alle spalle, e dunque autodidatta in questo campo, cercava di orientarsi impugnando una guida sicura: la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, il primo ad avere tracciato il canone delle patrie lettere. Folgorato dalle pagine su Petrarca, anche Svevo ne riconosce la grandezza «là dove si sentiva malato», cioè dubbioso nel cercare una sintesi tra una volontà sublime e la reale condotta di vita.

Trapiantava così l’animo sospeso del padre dell’umanesimo in un contesto piccolo-borghese: quell’intellettuale appassionato dei classici, che avrebbe voluto conciliare coi moderni, veniva desublimato nel mediocre scrittore Emilio Brentani, l’inetto protagonista di Senilità; Angiolina-Giolona, la donna sfuggente, idealizzata e da lui amata, sarebbe stata costruita invece attraverso la ripresa ironica del modello della donna-angelo stilnovistica, la dantesca Beatrice della Vita Nova, che «tanto gentile e tanto onesta pare».

Non a caso il geloso Emilio cerca di educare la sua volubile amante all’idea che «bisogna essere onesta o almeno parere». Anche Petrarca amava una donna sfuggente, Laura, dai «capei d’oro a l’aura sparsi», i colori di Angiolina. Il filtro desanctisiano, per Dante, agisce fin dal primo romanzo, Una vita, dove Svevo avrebbe usato alcune figure e situazioni della prima cantica della Commedia, la preferita dalla sua “guida”, per descrivere attraverso i personaggi più vari quell’Inferno terreno che era la Banca Maller, dove lavorava il protagonista, Alfonso Nitti.

Il “padrone” è inquadrato nel ruolo di dispensatore di lodi, remunerazioni o rimbrotti, dal momento che convoca ad uno ad uno i suoi impiegati dando ricompense a seconda del merito, come faceva all’ingresso del cerchio dei dannati il “giudice” Minosse, che «essamina le colpe ne l’intrata;/giudica e manda secondo ch’avvinghia».

Ed è così che Alfonso viene trasferito dalla “corrispondenza” alla “contabilità”, girone che i colleghi chiamavano “la Siberia”, perché là si era mandati per punizione: era stato il romanzo «galeotto» ad aver facilitato l’intimità tra Annetta, la figlia di Maller, e l’impiegato Alfonso. Il percorso che aveva portato i due a consumare l’atto d’amore su una poco poetica ottomana, segue in buona misura la narrazione dantesca.

Ma la passione dei protagonisti borghesi si spegne subito, all’opposto di quella sublime, «ch’a nullo amato amar perdona», come sanno Paolo e Francesca i due amanti trascinati per l’eternità nella bufera infernale. Posto riguardevole anche per Manzoni, le cui Opere varie lo scrittore aveva regalato alla “sana” fidanzata Livia Veneziani: queste si rivelano serbatoio inesauribile per ritratti, gesti proverbiali, descrizioni di luoghi, naturalmente adattati ad un contesto contemporaneo.

Il paesaggio, che Alfonso attraversa recandosi al capezzale della madre malata, riecheggia quello di Pescarenico dei Promessi Sposi, così come in Senilità l’agonia della sorella Amalia, che sognava le impossibili nozze con lo scultore Balli, ha come riferimento letterario la scena prima e il coro dell’Adelchi, ossia il delirio di Ermengarda, la sposa ripudiata da Carlo Magno.

Il ritratto dell’amante di Zeno, Carla, recupera stilemi descrittivi che rimandano alla descrizione manzoniana della monaca di Monza: un ovale purissimo, le gote pallide, le linee dolci che domandavano affetto e protezione. Non potevano mancare Boccaccio e il suo gusto per la burla, che vengono ripresi nell’ultimo capitolo della Coscienza di Zeno. In questo romanzo tuttavia domina un altro “classico” Niccolò Machiavelli, con cui Svevo aveva passato molte ore, come racconta lui stesso.

Ma se il segretario della repubblica fiorentina insegnava al Principe come amministrare il suo potere, qui è il suocero di Zeno Cosini a pontificare più prosaicamente sulle leggi del commercio seduto a un tavolo del Tergesteo, allora centro pulsante dell’attività finanziaria triestina. Certo, Zeno non ha nulla a che vedere con l’homo faber rinascimentale, ma possiede quella che per Machiavelli era la virtù somma, ossia la duttilità.

L’inetto sveviano, come «uomo abbozzo» che può ancora evolversi, è senz’altro disposto al cambiamento, tanto da esercitare il suo contropotere proprio a partire dalla sua caratteristica precipua, l’essere un po’ “strambo”: è così in grado di adattarsi alle contingenze della vita, nonché di cogliere le storture della società. Ma da quella Storia desanctisiana, molti altri sono gli autori che rimbalzano sulle pagine dello Svevo, che davvero così si conferma anche profondamente Italo. —

Riproduzione riservata © Il Piccolo