Stuparich disse a Bolchi: «Ama per tutta la vita La coscienza di Zeno»

Il 2 agosto 2005, esattamente tredici anni fa, moriva a Roma, nella sua abitazione sulla Cassia, Sandro Bolchi. Il suo nome è legato alla “buona” televisione, quella dell’era d’oro del tubo catodico, quando la Rai, inseguendo una vocazione pedagogica e non di puro intrattenimento, contribuiva a “fare” l’Italia e gli italiani, a familiarizzare con l’uso della lingua nazionale anche nelle aree geograficamente più remote, a conoscere “i fondamentali” della letteratura italiana e straniera attraverso gli sceneggiati a puntate precursori delle “serie tv”.
Bolchi fu uno degli artefici di questa rivoluzione culturale su piccolo schermo. Nel '63 firmava la trasposizione de “Il mulino del Po”, l’anno successivo toccava a “I miserabili” di Victor Hugo, seguito dal “Giulio Cesare” di Shakespeare. E nel 1967, un’opera imprescindibile della nostra letteratura: “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni. Otto puntate trasmesse la domenica sera in prima serata, considerate uno dei maggiori successi della televisione italiana con 18 milioni di spettatori raggiunti. Nel '68 arrivano “Le mie prigioni” di Silvio Pellico, un anno più tardi “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij. E poi: “Il cappello del poeta” (1970), “I Demoni” (1972), “Puccini” (1973), con un Alberto Lionello indimenticabile e carismatico nel ruolo del compositore. Ancora: “Anna Karenina” (1974), “Camilla” (1976), “Disonora il padre” (1978), “Bel Ami” (1979), per arrivare, nel 1988, a “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo.
Bolchi nasce a Voghera nel 1924, ma con la città di Trieste mantiene uno stretto legame. Figlio di un ufficiale dell’esercito, nel capoluogo giuliano compie gli studi superiori al Liceo Dante Alighieri, dove conosce Gianni Stuparich che è il suo insegnante di lettere. Qui muove i primi passi nel mondo dello spettacolo, esordiente attore al teatro “Guf” prima di trasferirsi con la famiglia a Bologna. E sempre a Trieste, sul treno che ogni giorno lo accompagna in città da Sesana, dove abita, che il futuro regista scopre e avidamente divora il capolavoro sveviano poi adattato per il piccolo schermo, con Johnny Dorelli nel ruolo di Zeno Cosini. Stuparich, congedandosi da Bolchi dopo l’esame di maturità, firma la copia sdrucita del romanzo appartenuta al ragazzo con questa dedica: «un libro che dovrai amare per tutta la vita». Promessa mantenuta. Quel libro lo amerà al punto da scriverne l’adattamento per la tv assieme a Tullio Kezich e Dante Guardamagna. Così raccontava: “Ho realizzato “La coscienza di Zeno” avendo una conoscenza profonda della letteratura di confine triestina - Saba, Svevo, Slataper, Stuparich, Magris - era impensabile che rifiutassi questa opportunità. L’intento era farne una cosa mia, legata a certi ambienti che avevo vissuto. La triestinità del libro sarà molto evidente”. Quando Bolchi fece ritorno in città con la troupe, in Rai tirava già aria di cambiamento e Bolchi non nascondeva qualche preoccupazione: “C'è un involgarimento dell'immagine televisiva, la Rai scimmiotta Berlusconi. Mi sono chiesto: perché non tentare un'operazione televisiva su un romanzo bistrattato, troppo poco noto, in fondo, rispetto al suo valore?”. Funzionò. La stampa riconobbe questo lavoro tra i migliori in assoluto della sua carriera. —
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