State of the Net a Trieste. "Il tribalismo dei social ora è misurabile"

Lo studioso Quattrociocchi ne parla alla conferenza oggi e domani a Trieste

Cosa ci fa un ricercatore di scienze sociali computazionali a una conferenza su Internet, fatti e (dis)informazione? Viene a parlare di uno studio che ha fatto il giro del pianeta, e in cui viene dimostrato che è impossibile fare cambiare idea alle persone su Internet, anche mettendole davanti ai fatti. Un risultato ottenuto, per la prima volta, con evidenze scientifiche incontrovertibili. Ci riferiamo a Walter Quattrociocchi, capo del CssLab dell’Imt di Lucca, uno degli ospiti della conferenza State of the Net. Completamente gratuita - previa registrazione sul sito - inizia oggi pomeriggio al Savoia Excelsior ed entra nel vivo domani con gli interventi di undici ospiti italiani e internazionali. La lingua ufficiale, dopo l’introduzione odierna in italiano, sarà infatti l’inglese. La stessa lingua di ricerca dell’equipe di Walter Quattrociocchi, che ha passato cinque anni ad analizzare le conversazioni pubbliche su Facebook di 1.5 milioni di individui in Italia e 55 milioni negli Stati Uniti per giungere a conclusioni fattuali sui paradossi informativi del mondo iperconnesso.

Quattrociocchi, cosa avete dimostrato con la vostra ricerca?

«Studiando il problema dell’acquisizione dell’informazione sui social, in un periodo in cui è quantitativamente abnorme e sempre più personalizzata, abbiamo visto che il valore di verità di una notizia passa in secondo piano rispetto al suo uso strumentale».

A “State of the Net” focus sulla Rete
Una passata edizione di State of the Net

Con quali metodi siete giunti a queste conclusioni?

«Abbiamo monitorato su Facebook l’interazione delle persone sia con le fonti di divulgazione scientifica, sia con quelle “alternative” o antagoniste al sistema. Ad esempio, di un post sulle scie chimiche sono stati analizzati commenti, “like”, sensazioni espresse, frequenza di commento e così via. Abbiamo scoperto che se un utente si specializza su una fonte, vi rimane fedele e si circonda di amici che frequentano gli stessi contenuti. Su Youtube, il consumo di video complottisti è pressoché identico».

Scegliamo ciò che ci piace rispetto a ciò che ci è utile, insomma.

«Dimostriamo in modo incontrovertibile che le persone sono guidate dal cosiddetto pregiudizio di conferma (prendono per buono solo ciò che è affine alle proprie credenze, ndr). Questo porta alla creazione di camere degli echi in cui viene condivisa la stessa visione del mondo. Casse di risonanza in cui questo genere di informazione è rafforzata e il valore di verità non conta più nulla. Basta poi aggiungere elementi ridicoli o paradossali alle notizie per farle ingerire al gruppo di riferimento. Si tratta del meccanismo dietro alle bufale, a cui nessuno è immune. Siamo tutti figli della stessa scimmia».

Così facendo avete dato una base scientifica alle speculazioni della sociologia.

«Applichiamo processi fisici alla nostra ricerca, come se l’oggetto d’indagine fosse un fluido, e utilizziamo algoritmi simili a quelli usati nell’analisi di particelle, pur senza ricadere nel riduzionismo».

Nella vostra ricerca parlate di fenomeni connotati alla natura umana, esistenti ben prima di Internet.

«Assolutamente. Oggi è solo più facile entrare in contatto con chiunque. Quando due persone di gruppi diversi si incontrano e discutono, però, finiscono per professare una posizione più estrema rispetto a quella che avevano in origine. La credenza diventa una specie di religione tribale».

Con Internet siamo tornati al tribalismo?

«Non ne siamo mai usciti, soltanto che ora è misurabile. Il paradosso è che in un mondo iperconnesso non comunichiamo più e diamo ascolto solamente alla nostra voce. La meccanica statistica comprenderebbe delle sfumature, ma in questo contesto dei social non ce ne sono proprio».

Seguire persone che hanno posizioni diverse non serve a nulla? Come si esce da questo tunnel solipsistico?

«Bisogna riportare le persone a comunicare, lavorando su educazione e ascolto. Parlare con qualcuno non per convincerlo, ma anche perché potrebbe avere ragione. Sui “social” poi bisogna uscire dal personaggio: quando condivido un’informazione cerco un “like”, modulando la mia personalità al pubblico che mi segue. È opportuno uscire da questo “loop” narcisistico, ma la strada è ancora lunga»

Riproduzione riservata © Il Piccolo