Sorj Chalandon e un padre violento e folle che vive nelle bugie

Lo scrittore è tra i grandi della letteratura francese al pari di Carrère e Houellebecq La sua storia potente pubblicata in Italia da Keller



«La figura di mio padre si nasconde in agguato in tutti i miei romanzi» dice Sorj Chalandon, scrittore francese nato a Tunisi nel 1952. «Però in questo libro esce in primo piano». Il libro è “La professione del padre” (Keller editore, pp. 266, euro 17,50) nella traduzione di Silvia Turato. Tradurre Chalandon può sembrare semplice: a una prima lettura le frasi sono chiare, accessibili, veloci, possono sembrare il disegno di un bambino. Eppure ogni frase ha il potere di suscitare in ognuno di noi un turbamento.

In molti si chiedono quanto dovremo aspettare per vedere Sorj Chalandon tra i nomi del pantheon letterario francese, accanto a Carrère o Houellebecq. I suoi libri reclamano a pieno diritto il riconoscimento, ma Chalandon è un autore che poco si adatta ai criteri del gotha letterario francese. È nato a Tunisi, non a Parigi e nemmeno in provincia. E poi ha una biografia fuori dalle righe: inizia a lavorare con il quotidiano “Libération” come vignettista grazie al suo talento per il disegno, come giornalista segue i fronti più scomodi, l’Irlanda del Nord, il processo a Klaus Barbie, il massacro libanese di Sabra e Shatila, e riceve diversi riconoscimenti per i suoi reportage. Diventa poi redattore del giornale satirico “Le Canard enchaîné”. Non esattamente il cursus honorum del letterato di Francia.

Questo percorso anticonformista, fuori dall’Accademia e dai salotti letterari, lascia una traccia nella scrittura, che non perde tempo in riflessioni artistiche ma dà all’immaginazione il compito di vedersela con la realtà e la Storia, in un modo che lo apparenta sottilmente a quel genio mai abbastanza celebrato che fu Romain Gary.

Proprio in questa dialettica tra immaginazione e realismo sta la forza sconvolgente di “La professione del padre”. Chalandon racconta un padre, il suo, violento e folle. Un padre che dice di essere stato campione di judo, cantante, paracadutista, pastore pentecostale, amico della guardia del corpo di Kennedy, intimo di De Gaulle e ora suo mortale nemico. Un padre che passa le giornate in pigiama tra il letto e la cucina tramando contro i politici e predisponendo affascinanti racconti d’eroismo a beneficio unico del figlio e della moglie, perché a nessun altro è consentito entrare in quella casa.

Una casa che vive di bugie a cui tutti credono, di immaginazione che ognuno esercita per sopravvivere. Quando il padre arruola il giovane Sorj in una fantomatica organizzazione segreta per l’Algeria francese, non solo lui non esita ad attuare compiti misteriosi (scrive sui muri, recapita missive notturne), ma finge di non vedere che i racconti del padre fanno acqua da tutte le parti. E anche quando la grande invenzione costruita si scontrerà con la realtà in modo drammatico, Sorj non troverà di meglio che sostituirsi al padre, imitare la sua violenza costruendo una bugia ancora più grande.

Chalandon ce lo dice senza mezzi termini: tutti noi non facciamo altro che aggiustare la realtà per sopravvivere. Il figlio picchiato finge di avere un padre eroe (qual è la sua professione?), la moglie impotente finge che tutto vada bene, “sai com’è fatto tuo padre”, continuando a credere che l’unica malattia del marito sia il raffreddore. Ma anche noi, con le nostre vite più tranquille e meno violente, non facciamo forse lo stesso? Fingiamo di non vedere un colletto sporco, il gesto brusco a tavola, ripariamo la realtà con i nostri racconti. Lo facciamo continuamente.

Il giovane Chalandon non si diverte a scrivere sui muri nomi sovversivi, preferirebbe andare a scuola con le mani in tasca. Ma poi suo padre gli strizza l’occhio e lui capisce. Al di là delle botte e della povertà, dell’armadio delle punizioni e del gelo nel letto, lui e suo padre condividono un segreto: credono alla stessa bugia, ci crede la madre, ed è questo a fare di loro una famiglia, a legarli per sempre. —

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