Silvio Orlando: «Trieste mi ha fatto cantare»

Il nome di un uccellino tipico dell’area mediterranea, «iconograficamente molto presente nel rinascimento, ma soprattutto nelle case del popolo napoletano e di riflesso del mondo poetico di Eduardo». Si chiama Cardellino la casa di produzione che Silvio Orlando ha creato nel 2011 con la moglie, l’attrice Maria Laura Rondanini. Orlando ha voluto riportare in scena lo spettacolo che considera il più grande successo da lui avuto in teatro: ventitré anni fa si chiamava “Sottobanco”, un testo di Domenico Starnone (ex professore, scrittore e sceneggiatore) divenuto nel 1995 il film “La scuola”, titolo mantenuto anche nella ripresa. Domani sera alle 21 chiuderà la stagione di prosa del Teatro Pasolini di Cervignano, da mercoledì a domenica sarà al Politeama Rossetti con i consueti orari (serali 20.30, festivi 16). La regia, in tutte le versioni, è stata di Daniele Luchetti. Gli altri interpreti sono Vittorio Ciorcalo, Roberto Citran, Marina Massironi, Roberto Nobile, Antonio Petrocelli.
«La venuta a Trieste, 23 anni fa, - racconta Silvio Orlando - fu forse la più clamorosa, la più divertente, la più potente di tutte le tappe della nostra tournée di allora. Fu un successo così caldo che noi alla fine, in omaggio al pubblico per l’affetto che avevamo sentito, ci schierammo tutti in proscenio e incominciammo a cantare, anzi a stonare una tipica canzone triestina: “Trieste dormi el mar se movi apena, le stele brila...”. Giuro che non lo rifaremo questa volta!».
Di cosa ci parla ”La scuola”?
«Lo spettacolo, come poi il film, racconta i tormenti di un prof democratico che cerca, per quanto possibile, di supplire alla mancanza di indirizzo generale. La generazione degli Starnone è quella che si è posta il problema del ruolo politico della scuola. La scuola che doveva colmare le differenze, la scuola di massa che doveva offrire a tutti, come dice la nostra Costituzione, un punto di partenza comune e ognuno riusciva a svilupparlo secondo le proprie attitudini, le proprie capacità. Questa ovviamente è una fatica disumana, che fa i conti un po’ con le strutture carenti, un po’ con il tempo che c’è a disposizione, un po’ con il ceto sociale dei ragazzi, che comunque crea degli scalini fortissimi».
I suoi ricordi di scuola?
«Io sono del ’57 e sono stato studente a Napoli nella prima ondata di beduini, come direbbe il nostro Mortillaro, insegnante reazionario, un’ondata di accesso alla scuola post-elementare o media. Una massa di persone che lo Stato non era pronto a ricevere. Da un lato la scarsa voglia di sedermi dietro un banco per cinque ore, dall’altro la mancanza delle strutture, che erano di una fatiscenza migliaia di volte superiore a quella di adesso, faceva sì che noi trovavamo parecchie via di fuga, anche mentali. Io cercavo il teatro, la musica, lo spettacolo in generale, quello che poi ho fatto».
Quale volto ha Napoli?
«Quando parliamo di Napoli dobbiamo sempre aprire parentesi, chiudere parentesi. Pensiamo di parlare di una cosa molto riconoscibile, in realtà è una cosa esplosa in migliaia sfaccettature. Napoli fa fatica a mandare segnali positivi. Nel progetto Italia l’unico spazio vero, grande e potente che ci è stato concesso è stato la cultura, la musica, il teatro, il cinema, però negli anni è venuto meno anche quell’aspetto. E sono rimaste le immagini più degradate della città, senza possibilità di riscatto. Questa è una cosa un po’ triste».
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