Sì, è vero: abbiamo liberato i matti. E (tra parentesi) facciamo l’esaurito
TRIESTE Quando il direttore del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Franco Però, ha proposto a Massimo Cirri, a Erika Rossi e a me di fare qualcosa sul palcoscenico per ricordare i 40 anni della legge che ha chiuso i manicomi, ho pensato che scherzasse. Per molti mesi ho tenuto lontano anche il solo pensiero di quell’invito. Erika e Massimo, invece, erano entusiasti. Durante l’estate abbiamo cominciato a pensare a cosa e come raccontare.
Forse bisognava ricordare quel 16 novembre del ’61 quando un giovane psichiatra, Franco Basaglia, arriva a Gorizia ai confini del mondo, nel cuore della guerra fredda. Un medico diverso dagli altri che affronta la “scienza” che si trova a praticare con un insolito respiro critico. Non era mai entrato in un manicomio. Era stato “cacciato” dall’Università, “troppo filosofo” diceva il suo direttore. Ma è proprio il filosofo che riesce a vedere con sguardo nuovo l’orrore che si trova davanti. È sconcertato dalle porte chiuse, dalle contenzioni, dal tintinnio delle chiavi. Ma è più di tutto l’assenza che lo sgomenta: ci sono 650 internati ma gli uomini e le donne non ci sono più. È impensabile in quel luogo poter incontrare l’altro. Per farlo dovrà mettere in un angolo la diagnosi e la maschera pesante dell’internamento. Metterà tra parentesi la malattia. Gli internati cominciano così ad avere un nome, una storia, una passione. Dovrà interrogarsi, mentre attraversa quel desolante paesaggio, sulla natura della malattia mentale, sulla disciplina psichiatrica che opprime e nega l’esistenza a milioni di persone. In quel deserto immobile ogni gesto irrituale, ogni piccola azione che contribuisce a scalfire almeno un po’ la piattezza istituzionale, sembrava già una riforma. Basaglia andrà via da Gorizia, ricomincerà la sua visionaria avventura a Trieste e con Marco Cavallo abbatterà il muro del manicomio.
Il crollo del primo muro apre un varco, indica il cammino che porterà alla legge 180. Il comparire sulla scena delle persone non può che far crescere l’urgenza del cambiamento: si aprono le porte, si aboliscono tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. Divenne questa la traccia su cui lavorare.
In scena una panchina rossa, Massimo e io a conversare, alle spalle le immagini degli uomini e delle donne che faticosamente procedono verso la loro liberazione. In questo la regia di Erika è stata vincente.
Le storie che Massimo e io raccontavamo muovevano passioni, interrogativi, memoria di sconfitte brucianti e conquiste gioiose. Non potevo non riandare agli anni dell’università a Napoli, dove Basaglia era lontanissimo. I manicomi cominciavano a comparire nelle parole delle assemblee e si presentavano per la prima volta ai miei occhi come il punto massimo della sudditanza della medicina al potere e del gigantesco apparato manicomiale a sostegno di ogni forma di controllo: “Medicina serva del potere” urlavano i cartelli alle occupazioni. Bisognava cercare Basaglia.
Fummo in tanti ad accogliere la sua chiamata per contribuire allo smontamento della secolare istituzione manicomiale. Era l’urgenza di un capovolgimento epocale che non poteva fare a meno della nostra passione. Affrontavamo rischi, amori, conflitti nella vertigine di orizzonti sconosciuti.
A Trieste le porte aperte, la cooperativa, le assemblee mi sconcertavano. Che si stesse trasformando la vita nel manicomio era evidente, ma avere consapevolezza di quanto questo avesse potuto cambiare radicalmente il mondo, non era alla mia portata. Era “il sogno di una cosa migliore”.
Cominciava, senza che ce ne accorgessimo, una vita professionale che pretendeva la continuazione del nostro impegno politico e sociale. Stavamo trovando la nostra strada senza separazioni, senza dissociazioni: la “lunga marcia attraverso le istituzioni” e il lavoro quotidiano, instancabile, un’incredibile fortuna.
A teatro, e ora in questo libro con Massimo, ho raccontato di me e delle cose meravigliose e aspre che accadevano. Ci rendevamo conto che raccontare della parentesi e della frattura insanabile che Basaglia ha provocato nel corpo della psichiatria, era il rischio di non essere compresi e la certezza, come diceva sarcastico Massimo per farmi coraggio, di un vergognoso fallimento.
Ogni sera a Trieste e poi a Milano, Torino, Ferrara, Udine, Codroipo, Cervignano, Modena, Forlì, Lecco tutto esaurito! Ho vissuto con stupore le emozioni delle persone che senti palpitare nel buio della sala. Dovevo prendere il mio rassicurante confettino di trinitrina con un’angina sempre in agguato.
A Trieste come negli altri teatri, ma a Trieste soprattutto, la mia sorpresa è stata grande. Il nostro narrare faceva sì che i triestini, superando antiche divisioni e polemiche, potessero finalmente appropriarsi di una storia che hanno vissuto e di un profondo cambiamento che hanno contribuito a realizzare. Un desiderio di appartenenza.
Ora il canovaccio di (“tra parentesi”) è diventato un libro. Franco Però, direttore dello Stabile e Aldo Mazza editore di Alpha Beta ci hanno chiesto di trascrivere integralmente la conversazione. Tradurre in libro le suggestioni della rappresentazione teatrale si è mostrata subito come un’operazione non facile. Eravamo scettici.
Alcuni amici hanno letto con entusiasmo il canovaccio e ci hanno convinto che bisognava farlo. Ci abbiamo provato rispettando sulla carta i tempi, i ritmi, le pause e le immagini dello spettacolo. Con vergognosa presupponenza posso dire che forse ci siamo riusciti. —
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