Si conclude il viaggio in kayak tra le isole dalmate

A Lopar la meraviglia di un albergo nascosto al riparo dalla bora, tappa del viaggio in kayak dello scrittore Emilio Rigatti
Di Emilio Rigatti

di EMILIO RIGATTI

Stanotte almeno non ha piovuto. Ma, stamattina, mentre facciamo rotta verso la città di Arbe-Rab con i suoi quattro campanili in perpetua processione, il cielo si spalma di una panna violetta che non promette nulla di buono. Vento? Come sempre, e sulla punta del naso. Anzi, sulle orecchie. Enrico, che ha fatto assieme a Aldo un corso di navigazione avanzata in Sardegna, mi spiega che il naso inganna. Meglio sentire la sventolata su ambedue i padiglioni auricolari, magari inumidendoli con un po' s'acqua salsa. Quando entrambe le orecchie si raffreddano, allora il naso indica da dove viene l'aria. Ogni giorno s'impara qualcosa, anche questa dell'anemometro auricolare. A Rab scendiamo per una passeggiata per le vie della città, per far viveri, per concederci un caffè in un bel bar della piazza. Una persona del luogo ci tranquillizza sul tempo: domani e dopodomani, sole e mare calmo.

Caricate le provviste, riprendiamo a pagaiare. Dal lato occidentale Arbe è un'altra isola. Coste basse, con la vegetazione che lascia libera solo una fascia di pochi metri di rocce bianche e screpolate. Il profilo dell'isola è molto articolato, da fiordi norvegesi. Infiliamo i musi aguzzi delle nostre barche in ogni insenatura e le esploriamo tutte, meticolosamente. In due occasioni avvistiamo dei daini che saltano sugli scogli. Prima di arrivare a Kampor, una visione. Ma sì, c'è un ristorante in fondo al fiordo. Aguzziamo gli occhi, ma sembra chiuso. È Aldo ad accorgersi che c'è una luce nel bar, poi un cagnolino comincia ad abbaiare. Uno scambio di sguardi d'intesa e sbarchiamo. In cucina stanno scannando un tonno appena pescato e ci concediamo uno dei pochi lussi di questa navigazione. Ad arrivarci in macchina, sono sicuro che il pesce avrebbe avuto un altro sapore.

Riprendiamo il mare con la santa calma: non abbiamo fretta e la bellezza va degustata a piccoli sorsi. Sotto le raffiche della bora il mare comincia ad agitarsi e avanziamo più lentamente. Siamo stanchi per la lunga pagaiata di ieri e quindi decidiamo di fermarci dopo meno di trenta chilometri, a Kampor. Come sempre, dobbiamo trovare un luogo dove infrattarci senza dare nell'occhio e, poco dopo il paese, troviamo una spiaggetta perfetta per lo sbarco. Scendiamo in esplorazione. Scopriamo un parco di pini, terrazzato, che in altri tempi dovette essere un campeggio. Tutto è in stato di abbandono. I servizi igienici sono stati saccheggiati e diverse dependance, sparse nel bosco, sono ugualmente in rovina, ma qui nessuno ci vedrà e potremo usufruire del tetto che ci offre la struttura delle ex-docce per cucinare al coperto e stendere la nostra roba perennemente umida. È da domenica che non tocco sapone e, nonostante l'acqua del mare ancora fredda, mi faccio un bagno depurativo. Guido Faoro, ormai chef ufficiale, fa bollire l'acqua per la pasta dopo che suo fratello ha devotamente sacramentato contro il famoso fornello svedese a benzina, che non fa il suo dovere. Stasera pesto alla genovese, gallette e formaggio, allegria e stanchezza. Quando entriamo in tenda comincia a diluviare. , alla faccia delle previsioni ottimistiche. L'acqua scroscia sulla tenda e sulle coperture impermeabili delle amache dei miei compagni di viaggio. Mi sveglierò un paio di volte nel corso della notte e ci saranno sempre il ticchettio della pioggia e il rumore del vento che mi canteranno la loro ninna nanna.

Enrico ed io ci svegliamo prima degli altri e raggiungiamo a piedi il paese per un caffè. Al ritorno, smontiamo il campo e torniamo ad imbarcarci, puntando verso Nord. Il vento, che dio lo benedica, è sempre e rigorosamente contrario. Non sappiamo se fermarci a Supetarska Draga o a Lopar - che si trova nell'insenatura successiva, ma decidiamo che è meglio avvicinarci a Baska il più possibile. Oggi i chilometri saranno meno di venti. Domani, se le condizioni del vento dovessero essere sfavorevoli, è meglio avere tutto il tempo per affrontarle. Quindi: Lopar. La baia ha un aspetto curioso: nella parte meridionale, quella esposta alla bora, le colline sono di pietra cruda, la vegetazione è stata sterminata dalle raffiche fredde. In vece il lato nord è coperto di boschi.

A una conveniente distanza dal paese troviamo lo scheletro di una meraviglia di altri tempi. È completamente nascosto dai pini e protetto dal vento, che fischia solo tra i rami più alti. Si tratta di un albergo in stile razionalista, con generose finestre, un portico, terrazzamenti in pietra che dovettero ospitare tavolini, orchestre e, a quanto pare, un gazebo. L'architetto doveva essere uno che sapeva il suo mestiere, perché la costruzione, in rovina, è perfettamente integrata nell'ambiente. In più, quando il sole tramonta, ci accorgiamo che i suoi ospiti di cinquant'anni fa potevano degustare un bicchiere di dingac o malvasia osservando il sole infuocarsi sulle gobbe di Cherso e accendersi un sigaro anche se la bora ululava sulle cime dei pini. Che, infatti, hanno i rami più alti scheletriti, drammaticamente protesi verso sudovest. Anche se la situazione mi ricorda da lontano il ritrovamento della Statua della Libertà ne "Il pianeta delle scimmie", è un luogo perfetto per il nostro campeggio "alla vigliacca".

Io monto la tenda dentro l'albergo, così si asciugherà un po', mentre Aldo, Guido ed Enrico stendono le loro amache tra i pini. Una passeggiata in paese ci fa scoprire che, all'attracco del traghetto, c'è una trattoria. Ha il secondo e il terzo piano in rovina con tracce d'incendio, mentre il piano terra, perfetto, sembra appartenere a un'altra epoca. Vi cenano gli operai di una qualche impresa che lavora in paese, reso orribile dalla speculazione edilizia disordinata e selvaggia. Chiudono alle otto, niente palacinke, modi sbrigativi del cameriere e un fritto misto e delle bistecche che ci vanno anche bene: credo perché siamo dei vagabondi.

Alle sei di mattina suona la sveglia. Accendo il VHF e ascolto il bollettino. Bora e sole. Il sole non è ancora spuntato, mentre le manate fragorose della bora scuotono l'isola.

È l'ultimo giorno. Appena prendiamo il mare ci accorgiamo di ciò che sapevamo già. Onda e bora dritti sul muso, senza remissione. Attraversiamo il chilometro che ci separa dall'isola di Sveti Grgar, a suo tempo carcere femminile, senza problemi.

Ma, appena terminate le coste boscose dell'isola, ci troviamo i quattro chilometri di mare che ci separano da Prvic, la prima e l'ultima isola del nostro viaggio. Non c'è molta scelta. Mettiamo le prue nelle onde e ci scanniamo ad avanzare saltando sulle creste, con delle raffiche che, ogni tanto, ci regalano sequenze di onde spumeggianti di tutto rispetto. In mare gli esami non si fanno in aula: bisogna farli dentro l'elemento. Per me è uno step in più, affrontato con la sicurezza di avere al fianco Guido ed Enrico, che ne sanno più del sottoscritto in fatto di navigazione. Giunti nella spellatissima Prvic la circumnavighiamo e ci troviamo di fronte a Baska, inondata di sole. L'ultimo scherzo l'Adriatico ce lo fa quando siamo ormai vicini all'arrivo.

La bora e la corrente di marea hanno trasformato il mare in una sorta di pentola in ebollizione, a cui si aggiunge l' "effetto lavatrice" delle onde che s'infrangono sugli scogli. Guido, di poche parole, commenta: "Un delirio!". Poi arriviamo sottovento e il mare si calma un po'. Poche decine di minuti e approdiamo sulla stessa spiaggia da dove eravamo partiti. E prima di scaricare, via a farci una doccia calda, sperando di non confondere il sapone col dentifricio. Visto che è da domenica che non lo tocchiamo…

(2 - Fine. La prima puntata è stata pubblicata ieri)

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