Severgnini e la “sua” Trieste: «È politica quindi mutevole, lasciandola già la rimpiango»

In “Italiani si rimane”, autobiografia professionale del giornalista di lungo corso. Un capitolo è dedicato alla città, dove però non ha mai abitato, mai studiato o lavorato 
15/05/2016 Torino, Lingotto Fiere, Salone del Libro 2016, nella foto EVENTO "VISIONI, LA VITA ISTERIOSA DEI TRENI" BEPPE SEVERGNINI
15/05/2016 Torino, Lingotto Fiere, Salone del Libro 2016, nella foto EVENTO "VISIONI, LA VITA ISTERIOSA DEI TRENI" BEPPE SEVERGNINI

TRIESTE Prima regola, non annoiare. Seconda regola, non usare parole inutili. È il principale insegnamento di Indro Montanelli, ricordato da Beppe Severgnini in “Italiani si rimane” (Solferino, pag. 280, euro 17,50), una vera e propria autobiografia professionale e che della professione discute anche le attuali questioni. Ma Severgnini ha imparato alla perfezione le regole dell’antico maestro, dotato di quella brillantezza che coniuga serietà e leggerezza. Non è da tutti, va detto, per quanto anche il mestiere di giornalista si impari sul campo, non è sufficiente. C’è bisogno di talento. Un talento che il nostro ha dimostrato fin dall’inizio. Fin da quei primi articoli, alla fine degli anni ’70, per “La Provincia” di Cremona.

Aveva 22 anni e frequentava l’università. Già allora si evidenzia per il senso della provocazione, la fantasia e, soprattutto, la capacità del rischio, elemento indispensabile per chi voglia emergere in qualsiasi campo. Severgnini ce l’aveva, tanto da meritare l’attenzione di Indro Montanelli. Complice un periodo “propizio” (il 1981) per chi era interessato alla comunicazione, Severgnini ci mette poco a dimostrare le sue abilità, si trasferisce a Milano, conosce il mondo giornalistico, quello vero, anche nelle grandi tavolate al ristorante da Elio, in via Fatebenefratelli, che Montanelli organizzava per i suoi giornalisti, da Paolo Romani a Giorgio Torelli: «Montanelli dirigeva l’orchestra di voci e opinioni. E ascoltava. Era un ottimo ascoltatore. Così bravo da mettere ansia».

Ascoltava e intanto insegnava a guardare le intricate faccende italiane con l’occhio del polemista e con quello dello storico: «Uno strabismo geniale, che gli storici di professione non gli hanno mai perdonato». Soprattutto aveva stile. E disciplina. Così come quando, al rientro dalle corrispondenze da Londra, Severgnini fu spedito sul fiume Po per un’inchiesta sull’inquinamento: «Ci sono rimasto malissimo: per tre ore» dopo di che ha svolto il suo lavoro, senza polemizzare, tanto fa guadagnarsi un: «Bravo. Adesso vai in Israele, c’è la rivolta palestinese», era il successivo ordine di Montanelli. Insomma maestri piuttosto estinti e Severgnini ci dà l’esatta misura di cos’è giornalismo, la serietà e la bellezza di un lavoro dove il controllo – non solo di scrittura – è fondamentale.

Così il dettato dell’autore passa in rassegna giganti del genere, da Enzo Bettiza, originario di Spalato e morto un anno fa, ai trattati di oratoria di Mario Cervi. Ci dice chi ha saputo evitare di farsi trombettiere del potere e lo fa per sottrazione, con l’eleganza di chi elude un elenco di accuse e accusati. In luce sono i pregi, invece, chi ha saputo trasmettere lezioni mai dimenticate, come Bettiza per esempio, nel suo rapporto con i giovani: «Il modo in cui un professionista affermato tratta i giovani colleghi è un test infallibile. Se li incoraggia, è un signore; se li ignora, è uno sciocco; se li osteggia, è un cretino».

E poi le corrispondenze, Londra, l’America, Israele e tutti i reportage ideati per il “Corriere Tv” tra cui spicca Trieste. Un lungo paragrafo è dedicato alla città e i toni si fanno sentimentali, un amore un po’ inspiegabile: «Non so da dove venga il mio amore per Trieste. Non ci sono nato, non ci sono cresciuto, non ci ho abitato, non ci ho lavorato, non ne sono scappato e non mi sono innamorato passeggiando per viale XX Settembre. Eppure Trieste è insieme a Milano, dove però alcune di queste cose le ho fatte – la città italiana che preferisco. Mi piace e basta.

Mi emoziona quando ci arrivo e la rimpiango mentre la lascio», scrive. Qualcosa di sospeso come è sospesa la città nelle sue contraddizioni geografiche, storiche, sociali: «Trieste mi piace perché è una città politica, quindi mutevole, quindi umana» e nel frattempo elenca tutto ciò che Trieste ha vissuto: «tragedie e resurrezioni, promesse e tradimenti» e tutti i grandi autori che l’amavano come Guido Piovene. Ma soprattutto, dice, è città letteraria, né teatrale come Napoli, né luogo di trame come Milano. Trieste è città poetica: «E la poesia sbuca dovunque: da un angolo, da un viale, da un tavolo del caffè Tommaseo, dalle vele della Barcolana che si accendono insieme nel sole. Impossibile non coglierla».

Trieste è un po’ folle, come folle fu Severgnini quando al “Giornale” si diede per disperso in Australia per godersi un viaggio romantico. Pazzia perdonata perché «bisogna essere un po’ matti, per fare bene il nostro mestiere», disse il grande direttore. Se sommiamo il talento del nostro, alla serietà, sarcasmo e genialità giornalistica di Montanelli, non stupisce certo la stoffa narrativa dell’autore.

La sua capacità di trarre da tutto una lezione, come l’occasione sprecata de “La Voce”, che troppo si era fidata di chi mirava solo alla strumentalizzazione. Il salto al “Corriere” con Paolo Mieli, la collaborazione con l’“Economist”, 16 libri alle spalle e i recenti ruoli dirigenziali, sempre pensati in modo che cariche e contratti siano corrispondenti agli incarichi. Ma è un testo che riflette anche sugli errori del giornalismo, sul rapporto tra media e comunicazione, le nuove frontiere tecnologiche, i rischi e le possibilità. Insomma una sorta di vademecum che mette nero su bianco esperienze e suggerimenti, di rara generosità, va detto. E poi il ritorno alla terra, dove il libro si fa asciutto e lirico perché è inutile, per quanto certi spiriti siano destinati al mondo, italiani si rimane. Semplicemente. —


 

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