Sergio Scabar in un’Oscura Camera ripete il miracolo della fotografia analogica
Il percorso
S’intitola “Questioni di minimi” il saggio in catalogo di Angela Madesani su Sergio Scabar, un riferimento a quelle “questioni di minimi” citate dallo storico dell’arte Roberto Longhi in più occasioni, quando si è occupato di Giorgio Morandi, pittore coevo di Longhi e molto amato da Scabar, da sempre.
Come Morandi, Scabar utilizza spesso gli stessi attori, un uovo, una ciotola, un cucchiaio, un mestolo, una bottiglia, un vecchio libro. «L’indagine va ben oltre una possibile dimensione narrativa», sottolinea Madesani, e proprio questo è quello che accade nelle sue opere, c’è un’idea della fotografia che non vuole raccontare quanto piuttosto cristallizzare, fissare le cose e dare la giusta dignità attraverso una grammatica visiva molto raffinata, costituita da una cultura a tutto tondo, che passa attraverso l’arte intesa nel senso più ampio del termine, pittura, musica, cinema, ma anche attenzione per il sociale e una coscienza civile che non si lascia scivolare le cose addosso, ma le analizza, in profondità.
È quanto emerge in questa prima antologica dedicata a Sergio Scabar, fotografo di Ronchi dei Legionari (1946) e intitolata “Oscura camera 1969-2018”, che si inaugura domani, alle 19, a Palazzo Attems Petzenstein, organizzata dall’Ente Regionale per il Patrimonio Culturale Musei provinciali di Gorizia, a cura di Guido Cecere e Alessandro Quinzi.
Autodidatta, Sergio Scabar comincia a interessarsi alla fotografia nel 1964. Dal 1966 al 1974 partecipa saltuariamente a concorsi nazionali e internazionali utilizzando la fotografia soprattutto con finalità di racconto e reportage. Successivamente, negli anni '80, il suo lavoro prende una svolta sostanziale, la figura umana esce dai suoi lavori e il suo interesse si concentra sulla natura, sublimando l'aspetto materiale e concettuale. Nel 2003 riceve dal Craf il premio "Friuli Venezia Giulia Fotografia".
«Oscura camera perché è proprio nella camera oscura che si ripete il miracolo, l’immagine che emerge, meravigliosa magia della fotografia analogica» evidenzia Scabar, ed è quanto si può riscontrare nel percorso allestito, composto da circa trecento opere, suddivise per cicli, in ordine cronologico, che ripercorrono cinquant’anni di lavoro e ricerca incessante, distinguibile in due fasi: una prima en plein air, del genere del Reportage, e una successiva più sperimentale e riflessiva, che dagli anni ’90 in poi ha definito la sua cifra artistica.
Opere per la maggior parte inedite quelle della prima sezione, tra cui l’interessante serie “Placet Experiri” del 1969, vincitrice del Festival del reportage e del racconto fotografico di Fermo e le 50 fotografie, contrassegnate da una forte impronta testimoniale, di “Interno di un interno di un ospedale psichiatrico”, che Scabar aveva scattato nel 1976 all’interno dell’ospedale psichiatrico di Gorizia e alle quali è dedicata un’intera sala in mostra.
La serie dedicata agli “oggetti quotidiani” del 1986 può invece considerarsi un’anticipazione del cambio di modalità operativa: se fino a quel momento infatti l’artista si muove con riprese in esterno, prediligendo ampi spazi e la luce naturale, come nella serie dedicata a Trieste e ai manifesti pubblicitari, successivamente sono i dettagli “macro” ad attirare la sua attenzione. La sua produzione artistica si fa sempre più concettuale, arrivando a concentrarsi sul valore del taglio nella fotografia, inteso sia come inquadratura nel momento della ripresa sia come ritaglio materiale, a posteriori, della stampa fotografica.
Dalla fine degli anni Novanta, la Natura Morta diventa l’asse portante della sua produzione. Proprio con “Il teatro delle cose” del 1999, Scabar mette a punto, dopo anni di sperimentazioni, una particolare tecnica di ripresa e la stampa alchemica ai sali d’argento in unica copia, che gli consente di ottenere, dei risultati molto particolari in termini di tonalità opache scure, che sono diventati il suo inconfondibile segno distintivo. Questa tematica si avvale di una ricerca di formati fuori standard, come dimostrano le cornici stesse, veri e propri manufatti artigianali realizzati dallo stesso artista a compendio dell’immagine raffigurata. —
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