Scrivendo lettere a casa nel fango delle trincee si esorcizzava la Morte

di ANTONIO GIBELLI «Tutte le mattine nello spuntar del sole il mio primo mestiere è quello di prender la matita e inviarvi i miei più sinceri saluti e baci a tutti in famiglia. Intanto che vivo (e...
Di Antonio Gibelli

di ANTONIO GIBELLI

«Tutte le mattine nello spuntar del sole il mio primo mestiere è quello di prender la matita e inviarvi i miei più sinceri saluti e baci a tutti in famiglia. Intanto che vivo (e che mi trovo in questo posto) vene scrivo una al giorno». Così scriveva alla sorella il caporalmaggiore Francesco Ferrari, contadino bergamasco, il 26 aprile del 1916, da una trincea del Carso. Nello stesso periodo un altro soldato, il bracciante vercellese Giovanni Panattaro, in una lettera agli zii commentava: «che noi qui quando non sapiamo cosa fare ci mettiamo a scrivere e anche un divertimento per noi scrivere a casa così voi non disturbatevi tropo e poi tutte le volte che scrivete dovete sempre pagare invece noi no che abiamo le cartoline (in franchigia)quando non sapiamo cosa fare scriveremo sempre». E in una cartolina successiva: «se io avrei tempo vi scriverei tutti li giorni». Entrambi, pur difettando di sufficiente apprendistato e pieni di incertezze ortografiche e grammaticali, inviarono a casa centinaia di lettere e cartoline. Entrambi morirono non molto tempo dopo quei messaggi: Francesco l'11 agosto del 1916, Giovanni il 21 novembre dello stesso anno, dopo aver scritto l'ultima cartolina con le abituali rassicurazioni sulla sua «buona salute».

Soldati che scrivono lettere: è questo un topos ricorrente dell'iconografia di guerra. Soldati avvolti nelle mantelle al riparo di una baracca o in mezzo al fango di una trincea, alla ricerca di un improbabile appoggio su un tavolaccio, impugnando maldestri la matita o la penna. Soldati che aspettano lettere da casa, trepidanti, delusi quando il loro nome non compare tra i destinatari delle missive in arrivo. Come disse Piero Calamandrei, operatore dell'Ufficio Propaganda, in un'orazione del dopoguerra: «la posta è il più grande dono che la patria possa fare ai combattenti: perché in quel fascio di lettere che giunge ogni giorno alle trincee più avanzate, la patria appare ai soldati non più come un'idealità impersonale ed astratta, ma come una moltitudine di anime care e di noti volti».

Quale bisogno profondo spingeva tanti semiletterati a questo uso spasmodico della scrittura, a questa fatica supplementare così lontana dalle loro abitudini, a questa guerra nella guerra con una lingua che maneggiavano senza perizia? Innanzitutto, il desiderio di segnalare ogni giorno la propria permanenza in vita: rassicurazione mai definitiva, perché la lettera poteva giungere a casa quando il mittente era scomparso. Ma non solo: scrivere a casa, ricevere posta significava evadere da un mondo indecifrabile di morte per rifugiarsi in quello domestico dotato di un senso: il lavoro, la famiglia, gli affetti.

La guerra fu un potente produttore di scrittura, un'occasione di accesso all'alfabetizzazione delle masse europee, di quelle italiane in particolare, tra le quali, nel 1911, l'analfabetismo era ancora vicina al 40%. Mobilitò quasi settanta milioni di uomini, separò famiglie e comunità, creò un immenso bisogno di comunicazione a distanza, di informazione, di rassicurazione e di conforto che solo la sc. rittura, in epoca pre-telefonica, poteva soddisfare: soldati in trincea, donne contadine rimaste sole alle prese col lavoro dei campi, la gestione dell'azienda domestica e l'educazione dei figli, popolazioni di confine internate per ragioni di sicurezza, profughi e rifugiati da terre occupate, prigioneri ristretti in qualche campo inospitale, alla disperata ricerca di un contatto con la famiglia che assicurasse loro un pacco di aiuti alimentari per non morire dimenticati.

Lettere e cartoline non sono l'unica forma di scrittura di cui gli illetterati furono spinti dalla guerra a fare un uso assai più esteso che in passato. Molti soldati partirono portando con sé un taccuino o un quaderno di scuola per annotare indirizzi, spese, qualche testo di canzone. Qualcuno cominciò a scrivere ogni giorno, sulle pagine rigate o quadrettate, gli spostamenti, i nomi dei luoghi e dei monti, gli accadimenti principali. Presi dal vortice dell'evento, sentivano il bisogno di lasciarne una traccia che ne conservasse la memoria. Anche in questo caso, l'incombere di una morte possibile caricava la scrittura di un significato speciale, come gesto che doveva assicurare una sopravvivenza virtuale.

Così, il mezzadro toscano Giuseppe Manetti, rimasto a lungo nelle retrovie, quando si profila il suo trasferimento in zona di guerra acquista un quaderno e comincia a tenere un diario, facendolo precedere dalle istruzioni, rivolte a chi lo trovi sul suo cadavere, per farlo giungere alla moglie Cesira, e da un tenero commiato indirizzato a quest'ultima.

In questo fiume di scritture che continua a riaffiorare dal sottosuolo della memoria di guerra, un posto speciale occupano i diari di prigionia. Cosa spinse prigionieri detenuti nei campi di mezza Europa, alle prese col problema di procurarsi ogni giorno qualche testa d'aringa o un'infinitesima fetta di pane, tormentati dal gelo, dalla fatica e dalla disciplina feroce, esausti e vicini a spegnersi in silenzio nei loro pagliericci, a tener nota metodicamente dei loro patimenti? Uno di loro, Luigi Colombini, milanese, sopravvissuto, riportò a casa con sé uno di questi preziosi documenti, con gli orli sfrangiati e pieno di maccchie d'umido, ma annotato con scupolosa regolarità, senza tralasciare uno solo degli oltre 400 giorni di detenzione, col catalogo delle sue sofferenze. Qui la scrittura afferma la sua funzione di resistenza al degrado: scrivere ogni giorno significa ribadire ostinatamente che per un altro giorno si è riusciti a sopravvivere all'inferno del lager. Significa mettere un po' d'ordine, un po' di pulizia nel mondo del disordine e della sporcizia.

Infine, le memorie. A distanza di anni, talvolta di decenni, il fante sente il bisogno di fissare il racconto delle sue peripezie, di sistemarlo in forma compiuta facendone un monumento alla sua avventura e un monito per i posteri. Così Giovanni Pistone, contadino piemontese, nel 1973 acquista un quaderno, incolla sulla prima pagina a sinistra una sua foto che lo ritrae in divisa militare, e comincia a raccontare la sua storia, fatta di orrore e di orgoglio per essere scampato alla tragedia senza perdere dignità e umanità: «Io sotto scritto Pistone Giovanni nato a Roccaverano e residente a Roccaverano Prov. di Asti, classe 1893 Cavagliere di Vitorio Veneto/Essendo giusto di memoria dopo 50 anni ho scritto un libro ho Diario come si vuol chiamare che racconta dalla mia partenza militare al ritorno in congedo…». La Grande Guerra ha segnato una cesura nella sua vita individuale come nella grande storia. Di questa cesura il suo "libro", oggetto povero e fragile, rimane un segno prezioso e indelebile. Uomini e donne come lui che avevano con la scrittura un rapporto precario, affermarono il diritto a scrivere in una società nella quale scrivere era un privilegio. Grazie a loro noi oggi possiamo costruire quella storia corale della Grande Guerra che un tempo era considerata una chimera.

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