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Nella corrispondenza tra due amiche, emergono “le questioni nazionali” che agitarono quelle terre e culminate nello sciopero alla Filanda di Brazzano 

Meg cara,

Perdonami. Nel nostro ultimo incontro ci siamo dette cose troppo spiacevoli per essere dimenticate e di proposito, per più di un anno, non ti ho scritto. Per te era inconcepibile che io avessi accettato la proposta di matrimonio del signor Bantling. È stata una decisione rapida, ne convengo. L'ho conosciuto sul vapore della linea Phelps, che nel settembre del ’91 da Trieste mi riportava a New York, e l’ho sposato e seguito a Boston, ponendo fine alla mia carriera di giornalista. Una cosa da non fare, dicesti, per poi accusarmi di essere una squallida donnetta. Invano ho cercato di spiegarti che da parte mia non vi era stato alcun calcolo.

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È stato meraviglioso, Meg, accorgermi che un uomo come Bantling s’interessava realmente a me, e ho cominciato ad amarlo, tutto qui. Ora al mattino lui va in ufficio, mentre io rimango in questa grande casa, con la servitù e infinite faccende che assorbono il mio tempo. Leggo ancora e mi tengo informata: voltare le pagine continua a piacermi. Di scrivere non se ne parla, o almeno non se n’è parlato finora: negli ultimi giorni qualcosa è cambiato e per questo ti scrivo, cara amica.

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Ricordi il reportage che volevo inviare al «New York World»? Te ne scrissi in una delle mie lettere dall’Europa, fornendoti in materia un resoconto, che poi ti pregai di distruggere. Ero corrispondente dell’«Interviewer», allora, e seguivo le sessioni di un congresso organizzato in una graziosa città dell'impero austro-ungarico, Gorizia. Fui presentata a un certo Antonio Bersa de Leidenthal, redattore de «L’Osservatore Triestino».

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È quasi un foglio ufficiale del governo, pubblicato in italiano e assai letto da chi voglia informarsi su nuove leggi, traffici marittimi e commerciali. Da signorina disinvolta riuscii a condurre il discorso sul tema che mi interessava, mi procurai dal dottor Bersa delle informazioni utili e, prima di accomiatarmi da lui, gli lasciai un mio biglietto. Immagina la mia sorpresa quando, qualche giorno fa, mi giunge dall’«Interviewer» una grossa busta. Conteneva dei fogli di giornale e una nota del dottor Bersa, che mi diceva di considerarli una sorta di regalo per il prossimo Natale. Uno, del 2 dicembre, era tratto dal supplemento dell'«Osservatore», «L'Adria»; l'altro da «Il Cittadino» del 4 dicembre; è uno dei tanti quotidiani che si pubblicano a Trieste, quest’ultimo, filoitaliano e anticlericale (almeno per quanto ho potuto capire). Tu hai sempre seguito le cronache di politica estera e di certo sei informata sulle «questioni nazionali» che agitano il vecchio impero asburgico; non c’è bisogno, perciò, che ti spieghi. Entrambi i fogli recavano un articolo sullo sciopero scoppiato il 18 novembre 1892 nella filanda a vapore della ditta Giorgio Naglos in Brazzano.

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Quello del «Cittadino» polemizzava con il corrispondente dell’«Adria». Alla base del contendere c'era il ricorso a manodopera proveniente dal vicino Regno d’Italia. Autore dell'articolo era il direttore della filanda che, dopo aver ribadito che la ditta Naglos operava nel pieno rispetto dei regolamenti e senza compiere sperequazioni fra le lavoratrici, forniva la propria cronaca dei fatti. Il 17 novembre, giorno di paga, erano state licenziate alcune operaie, senza versare loro tutto il compenso cui avrebbero avuto diritto. «Avevo forse io da gettar loro in schiena l’importo per il termine dei 14 giorni, quando non lo pretendevano?» notava il direttore, e continuava: «le donne licenziate, dopo aver procurato di metter dello scompiglio fra le operaie rimanenti, abbandonarono intempestivamente il lavoro, recando così un danno al proprietario, che fu costretto a tener ferme le bacinelle. Con questo scarto il direttore aveva inteso d’aver allontanato tutto ciò che in filanda eravi d’inutile e dannoso. E se il corrispondente dell’Adria si meraviglia che si licenziò una donna dopo 16 anni di servizio, dovrò avvertirlo che, fra le altre, macchina vecchia non serve bene».

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Il giorno seguente 34 delle 65 operaie, che si erano presentate al lavoro, alle 8 del mattino lo abbandonarono per recarsi a Cormons. Al direttore, che le fermò all’imbocco del paese, spiegarono d'aver sentito che sarebbero state tutte licenziate e che si recavano dal padrone «onde ritirare la caparra loro competente» (all’inizio della stagione di lavoro, infatti, è loro richiesto di depositare una cauzione). Il direttore respinse l'ipotesi di ulteriori licenziamenti, invitandole a tornare alla filanda, ma quelle vollero parlare con il proprietario, che le ricevette e le rassicurò. Tornate alla filanda all’una del pomeriggio, si videro rifiutare il permesso d'entrata in assenza d’un ordine scritto del padrone; reagirono con altre grida: «Fuori il danaro, fuori gli italiani»! Davvero la «questione nazionale» riesce a sovrapporsi a tutto, in quelle regioni. La cosa si concluse con il licenziamento di tutte le «scioperanti». E io devo, a questo punto, riprendere il mio reportage e inviarlo al giornale di Pulitzer. Lo firmerò con uno pseudonimo, in modo che Bantling non ne abbia a risentire. Sono certa che tu, cara Meg, vi saprai riconoscere lo spirito della tua affezionatissima.

Elizabeth Stackpole

Di che cosa trattava mai, quel reportage? Lo scoprirete durante il percorso In Vino Veritas, collegato agli obiettivi 4, 5, 8 e 12 dell’Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile. La notizia dello sciopero del 1892 proviene dal presidente della Società Cormonese Austria, Giovanni Battista Panzera, generoso con me come lo era stato Antonio Bersa nei confronti della giornalista americana del racconto.






 

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