Scoprire il Collio - Itinerario 1 - Gli ottomani al di là del fiume: riviviamo i giorni di Cormòns

Collio XR è un progetto ideato dalla Fondazione Carigo con Intesa Sanpaolo grazie alla realizzazione Digital Experience di Ikon e lo studio paesaggistico di Land Italia. Il primo, degli otto itinerari previsti s’intitola: «Mamma li Turchi». Il punto di partenza è fissato in piazza XXIV Maggio, a Cormons , in provincia di Gorizia. La lunghezza del tracciato è di venti chilometri e il tempo di percorrenza in bicicletta si ggira sulle due ore. A piede dovrebbe essere coperto in quattro, a seconda nche della camminata. Lo stile narrativo è quello del racconto storico, autore del percorso: Antonio Degrassi, mentre la sceneggiatura è firmata da Giovanni Ziberna. Ricerca storica, ambientazioni e approfondimenti a cura di di Lucia Pillon. Testi in voce di Blp. Edizioni, Cinecittà, Roma
Correva l’anno 1478. Gli alberi che crescevano alla sommità del Quarin, alle spalle di Cormons, erano stati tagliati per creare il vuoto intorno al castello che all’esterno si presentava come un rettangolo di mura: grande, chiuso da ogni lato e allungato a seguire il profilo del monte. Una solida costruzione emergeva con una vecchia torre: era il mastio. Sotto una seconda torre, altrettanto vecchia, si apriva la porta che permetteva di entrare nello zirone, come tutti chiamavano il rettangolo delle mura. Di là, una mattina, uscirono due uomini, e si avviarono verso il paese. Il sole, nel cielo, era già alto; cominciava un’altra giornata calda, e non c’era da stupirsi: era la fine di luglio. I due andavano di buon passo, profittando della discesa. Uno, ser Odorico, abitava in una delle case all’interno del castello. L’altro veniva da Gorizia e si chiamava Michele. Parlavano, e sembrava che tra loro esistesse una certa confidenza.
«L’ho saputo da informatori veneziani, Michele: al di là dell’Isonzo sono stati avvistati dei turchi: tre corpi di razziatori a cavallo, ciascuno con il suo comandante. Uno, Iskender, pare guidi 20mila cavalieri! 20mila akıncı, un castigo di Dio!»
«Le spie di Venezia tendono sempre a ingrossare le cifre – disse il goriziano – Contano i cavalli, non i cavalieri; basta tener conto che ogni uomo si muove con almeno due cavalli, saltando dalla groppa dell’uno a quella dell’altro, per mantenere la velocità senza stancare le bestie con il peso: facile così moltiplicare il numero degli akıncı. E non dimenticate – continuò – che i turchi sono già arrivati questa primavera, compiendo incursioni a Gorizia e a Monfalcone, ma le truppe veneziane sono riuscite a tenerli a bada senza cadere in trabocchetti, com’era successo l’anno scorso a Lucinico».
«Fu un massacro, lo ricordo bene – commentò, cupo, Odorico – Mille cavalieri ottomani avevano preso il ponte di Gorizia e attraversato l’Isonzo: pochi schierati in campo aperto, il grosso nascosto nei boschi, dietro Lucinico. Il figlio del comandante Novello, il giovane Giovanni, cadde nella trappola: appena uscì a dar battaglia, i turchi finsero la ritirata; quando i veneziani li seguirono nei boschi, li uccisero quasi tutti. Si salvarono solo le riserve, scappando a Gradisca per chiudersi nel forte fatto costruire dai veneziani: una grande opera inutile», concluse scrollando il capo.
«Be’, questa volta pare che la Repubblica abbia raccolto in Friuli un buon numero di stradioti, in gran parte albanesi, abituati a misurarsi con i turchi; e ha richiamato in servizio Carlo Fortebraccio, un gran condottiero. La difesa terrà, ser Odorico. Ha resistito anche a primavera, ve l’ho detto. E in fin dei conti – aggiunse – siamo pur sempre nelle terre del conte di Gorizia, anche se Venezia si ostina a trattarle come sue. L’avrete sentito anche voi, no, che il conte Leonardo lascia passare i turchi per danneggiare la Serenissima? Quelli, in cambio, non attaccano i suoi villaggi. Se, Dio non voglia, le difese dei veneti dovessero fallire, è il caso che anche a Cormons si tratti, per evitare il peggio».
«Diamine! – sbottò Odorico – Ne abbiamo parlato tutta la notte. Eppure … – continuò, facendosi indeciso – Voi vi mostrate sicuro, Michele: ma come potremo trattare senza correre il rischio di essere ammazzati? E come riusciremo a intenderci, con quei turchi, quegli ottomani di cui non conosciamo la lingua?»
«Che vi posso rispondere, ser Odorico? Rischi se ne corrono sempre. Quanto al poterci intendere, ricordate quanto sanno bene i vostri ‘informatori veneziani’: molti, fra gli akıncı, sono cristiani. Appartengono ad antiche famiglie turche, di cui lavorano le terre: se sono capaci di combattere, non fanno i contadini. Li inquadrano nell’esercito, però non li pagano; così quelli, nelle razzie, arraffano tutto quello che trovano: cose, animali, uomini, poi donne e bambini, soprattutto, di cui chiedere il riscatto, o da vendere come schiavi. E di questi bambini rapiti molti finiscono col diventare razziatori. È una serpe che si morde la coda, ser Odorico. E non dimenticate che a loro si unisce, lungo la strada, anche gente in cerca di bottino. Fra quegli ‘ottomani‘, come li chiamate voi, troveremo di certo qualcuno capace d’intenderci, non temete».
I due uomini avevano ormai raggiunto Cormons. Il paese era in allarme. Molti avevano visto alzarsi spirali di fumo dalle colline vicine. Erano stati accesi dei fuochi: gli abitanti del Collio li utilizzavano per segnalare l’arrivo dei turchi. I due si mescolarono agli uomini che affollavano lo spiazzo al centro del paese, ascoltando e lasciando cadere qualche parola qua e là. Quando ser Odorico lanciò a Michele un rapido cenno d’intesa, ripresero la strada da cui erano venuti. Un ragazzo li sorpassò, correndo all’impazzata.
«Dove vuole andare, quello? – sbottò ser Odorico.
– È Biagio – gli spiegò Michele – Viene da Medea. Scampato all’incendio del paese durante la scorreria dello scorso ottobre. Qualcuno, qui, se l’è preso in casa come servo. Andrà a San Giovanni, a dare l’allarme. Credo abbia una ragazza, là».
«Sì, devono avermene parlato. È rimasto vivo, dicono, ma inebetito da quello che ha passato».
« Credo sia meno tonto di quel che sembra, ser Odorico. Non fidatevi delle apparenze».
La narrazione è liberamente ispirata al verbale dell’interrogatorio di Michele da Gorizia del 1478, pubblicato da Elisabetta Scarton, agli studi di Maria Pia Pedani Fabris e a Cormons nel medioevo di Donata Degrassi. —
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