Sconosciuti regnicoli gli immigrati italiani nel cuore di Trieste
In un saggio di Marina Silvestri pubblicato dalla Leg le vicissitudini della comunità fino alla Grande guerra

Regnicoli, un termine che oggi non dice nulla, eppure nell’800 e 900 era d’uso comune nella nostra città, ma anche altrove nel mondo, a indicare i sudditi del regno d’Italia. Ai regnicoli triestini, che costituiscono un capitolo fondamentale della nostra storia, è dedicato il libro di
Marina Silvestri “Lassù nella Trieste asburgica - La questione dei regnicoli e l’identità rimossa” (Leg, Libreria editrice goriziana, pagg. 356, euro 28,00)
, che esce giovedì. L’autrice, giornalista e scrittrice triestina, ha al suo attivo numerosi romanzi e saggi in gran parte dedicati alla sua città. In questo suo poderoso volume analizza con dovizia di dati, frutto di approfondite ricerche, le vicende di questa fetta di popolazione triestina la cui identità, come anticipa il titolo è stata rimossa.
Non è un caso che siano state dimenticate queste migliaia di persone che qui hanno cercato un futuro: la spiegazione si può trovare nella retorica della redenzione, della città italianissima che ha oscurato il vissuto dei triestini che hanno indossato la divisa austriaca (oltre 60 mila), le pulizie etniche dei tedeschi (calati da 12mila a un migliaio subito dopo la fine del primo conflitto mondiale) e degli slavi (protagonisti di un esodo silenzioso che si è protratto per lunghi anni dopo il ’18 e di cui ancor oggi non si hanno cifre attendibili). Così è stato per i regnicoli che Silvestri ci fa riscoprire.
Cominciamo dalla fine quando sono costretti all’esilio allo scoppio della Grande Guerra: «Quasi 10mila sudditi italiani – scrive Silvestri - saranno espulsi attraverso la Svizzera; quasi 3mila uomini dai 18 ai 50 anni, abili alle armi internati e più di mille confinati assieme agli italiani cittadini austriaci sospettati di nutrire sentimenti italiani, pacifisti o disfattisti, anch’essi internati o mandati al confino, in Stiria e Bassa Austria». In totale furono 35 mila le persone interessate nella sola Trieste. «L’Austria-Ungheria fu la prima potenza ad attuare il confino nei confronti dei cittadini stranieri – sottolinea Silvestri -. Il caso dei civili regnicoli rappresenta però una ben più grave discriminazione. Si trattò di un calcolo lucido da parte delle autorità imperial-regie, visto l’esiguo numero di sudditi austriaci presenti in Italia che potessero essere vittime di ritorsioni».
Si chiude così in modo drammatico il rapporto tra il governo austro-ungarico e regnicoli, che aveva conosciuto fasi alterne.
L’atteggiamento delle autorità asburgiche nei confronti degli italiani, siano essi sudditi imperiali, siano essi provenienti dalla Penisola cambia dopo il 1866, quando con la terza guerra di indipendenza l’Austria perde il Veneto e parte del Friuli. Nel 1861 l’Italia è diventata stato unitario e brucia a Francesco Giuseppe la sonora sconfitta di due anni prima a Solferino, durante la seconda guerra di indipendenza italiana.
Lo scontro si farà più cruento proprio a Trieste, dove il municipio, governato dai liberal-nazionali fortemente irredentisti, favorisce l’immigrazione italiana. Va detto che il consiglio comunale triestino è una Dieta, cioè un organo deliberante di tipo parlamentare con potestà primaria in diversi settori tra cui quello fondamentale dell’istruzione. Un retaggio dell’autonomia che Trieste, città immediata all’Impero, ha avuto sin dai tempi dell’atto di dedizione del 1382.
Silvestri spiega che la presenza di immigrati italiani a Trieste è antica: un flusso inarrestabile dal 1200 in poi di mercanti dalle altre sponde dell’Adriatico (molti i pugliesi che commerciano vino, olio e frutta), di ebrei con i banchi feneratizi e di banchieri fiorentini e lombardi, di artigiani e manovali veneti e friulani; flusso che aumenterà quando Trieste si affranca da Venezia. La Dominante è al tramonto, i Turchi sono stati sconfitti, in Adriatico la navigazione è libera, Carlo VI concede il porto franco e i traffici si moltiplicano. Chi sceglie di vivere a Trieste gode dell’immunità per i delitti commessi in territori non austriaci. Luci e ombre – rileva Silvestri citando Pierpaolo Dorsi - delineati dal barone Piero Antonio Pittoni, direttore di Polizia negli anni Ottanta del Settecento: «Il popolo della città forma un complesso di molte Nazioni: i protestanti, i Greci, gli Ebrei, sono nazioni sagaci ed industriose senza vizi, la pontificia, veneta e napolitana è attiva, vivace, portata al senso, ed al furto, e sanguinaria; li dalmati sono d’una attività e robustezza straordinaria, buoni navigatori, ma sanguinari e ladri. Vi sono molti estri che ánno commesso delitti, e specialmente omicidi».
Però i capi delle varie Nazioni collaborano con le autorità per denunciare i tipi molesti nella loro comunità e controllando i nuovi arrivati.
Malgrado la diffidenza delle autorità austriache nonostante Trieste si sia dimostrata “fedelissima” nel travagliato ’48, la città continua ad attrarre immigrati dall’Italia, come peraltro dalle regioni dell’Impero e da più lontano perché l’economia va forte. Silvestri ne dà ampiamente conto insieme ai più importanti eventi locali e internazionali, soprattutto in quei sessant’anni che intercorrono tra la metà dell’800 e il 1914. E mette in evidenza un aspetto certamente poco conosciuto: le motivazioni dell’emigrazione italiana post-unitaria. «Con l’Unità d’Italia – afferma Silvestri sempre rifacendosi a Dorsi -, la “prospettiva” con cui la classe politica costruisce il Paese diviene una prospettiva longitudinale da Nord a Sud, mentre al tempo degli Antichi Stati era stata latitudinale; attraverso le vie che s’inerpicavano lungo l’Appennino, Tirreno e Adriatico comunicavano e così il Tavoliere e il Gargano con l’Albania e la Dalmazia, le terre del delta del Po con l’Istria».
«Ne risentì - prosegue - la vita quotidiana di una popolazione operosa che nel nuovo assetto statale unitario non trovava collocazione, penalizzata dalle scelte di politica economica e dal clima di costruzione della nuova identità che spegneva identità sedimentate nella storia di ciascun territorio, frutto di contaminazioni ed esperienze multiculturali. Era una popolazione portatrice di saperi, di intelligenza, di cultura materiale. Chi emigrava forse si portava dietro l’idea del Paese sognato, di un’equità sociale maggiore, nonché la delusione verso un’amministrazione statale che imponeva regole considerate vessatorie. Spesso arrivavano a Trieste già disillusi, nel bagaglio il peso di un cambiamento incompiuto, e saranno schiacciati nel Novecento da logiche politiche interne ed esterne, dal cozzo di lotta nazionale». E da Nord arrivano a Trieste, nella seconda metà dell’800, i gruppi bancari e industriali che cambiano la fisionomia economica della città sempre meno italiana, mentre si sviluppa una forte borghesia slovena. Crescono lavoro e ricchezza e crescono gli attriti nazionali. E poi ci sono le crisi economiche ricorrenti (1873, 1891), che provocano lotte feroci tra i regnicoli, in buona parte lavoratori dei livelli più bassi, anche se molti sono esponenti di professioni liberali, e i loro colleghi, soprattutto sloveni e croati, che vantano di essere sudditi imperiali mentre loro sono “stranieri”. E le autorità non favoriscono l’acquisizione della cittadinanza austriaca ai regnicoli, che agli inizi del XX secolo sono 40 mila (su 240 mila abitanti circa) e provengono soprattutto dal Friuli (dovrebbero tenerlo presente i corregionali friulani che oggi vedono Trieste come un corpo estraneo), dal Veneto, dalla Puglia e da varie parti del Meridione. Silvestri correda l’agile narrazione con doviziose liste di nomi e professioni che possono portare molti lettori a scoprire le proprie radici.
La città mercantile che pensava soprattutto agli affari è sempre più scossa da fermenti politici e sociali: lo sciopero dei fuochisti del Lloyd del 1902 è solo la punta dell’icerberg. L’Europa tutta sta correndo verso il baratro della Grande Guerra. Dopo il ’18 Trieste non sarà la stessa, quando gran parte dei regnicoli torneranno e pure loro si accorgeranno della differenza.
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