Sarajevo trent’anni dopo tra la nuova Jugonostalgia e turisti in cerca di pallottole

Diana Bosnjak Monai racconta nel libro edito da Besa Muci le storie di personaggi della “Gerusalemme d’Europa”

Corrado Premuda

TRIESTE Sarajevo, città sorprendente e particolare, è uno scrigno di storie, di personaggi, di fatti che si legano con il carattere sfaccettato e multiculturale del posto e perfino con le scottanti questioni storiche portate dal sanguinoso conflitto terminato venticinque anni fa. Per chi ha Sarajevo nel cuore perché vi ci è nato e cresciuto la nostalgia, se ne vive lontano, è forte e lacerante, tanto più se una pandemia globale obbliga tutti a vivere segregati. È proprio durante il primo e di certo indimenticabile lockdown dovuto alla diffusione del virus da Covid-19 che Diana Bosnjak Monai si mette a scrivere, nella sua casa di Trieste, il romanzo “Dio è uno solo – Sarajevo Requiem” (Besa Muci Editore, pp. 166, euro 15). L'autrice bosniaca, già autrice con Puniša Kalezić di “Da Sarajevo con amore. Diario dall’assedio” (Controluce), trova la giusta serenità grazie agli amici che, pur lontani - qualcuno a Sarajevo e altri all’estero - le mandano barzellette, aneddoti, racconti di vita, dubbi, e lei ridendo di tutto, anche della morte, con quella capacità tutta balcanica di ironizzare sugli argomenti seri, riesce nella sua impresa narrativa.

Il romanzo è ambientato a Sarajevo nel 2020, dopo tanti anni dalla fine dell'assedio e dalla morte di Tito, una città in cui gli adulti di un tempo sono diventati anziani e sopravvivono tra mille difficoltà, mentre i giovani di allora, adesso emigrati di mezza età, sono sparsi per il mondo. Il protagonista è Ahmet: una mattina nota le finestre spalancate dell'appartamento che sta di fronte alla sua bottega e comprende che il suo vicino Moni è morto. Intento ad assicurare all'amico una degna sepoltura, Ahmet si incammina in una serie di peripezie che, tra commozione, dolore e sorrisi, riportano al tragico passato bellico della sua gente e al presente precario. Un presente che vede Sarajevo, la Gerusalemme europea, mescolanza unica di tradizioni e religioni, invasa dai turisti interessati a scattare fotografie e selfie e ad assicurarsi un souvenir dalla Bosnia, meglio se si tratta di qualcosa di caratteristico, tipico, come una pallottola.

Com’è nata l'idea del romanzo?

«L’input - risponde Diana Bisnjak Monai - , la spinta da cui si è sviluppata tutta la storia, è arrivato in una maniera abbastanza strana. Avevo visto un’intervista a un anziano membro della comunità Rom, il giornalista chiedeva all'uomo delle sue tradizioni e lui aveva nominato “amanet”, cioè l’ultimo desiderio che viene espresso prima di passare a miglior vita. Da lì è scattata la scintilla che mi ha risvegliato ricordi d’infanzia e di giovinezza».

I personaggi della storia sono reali?

«No, non lo sono. Ma il caleidoscopio di personaggi prende ispirazione da persone che ho conosciuto e frequentato e molte delle situazioni, per quanto possano sembrare surreali o grottesche, sono aneddoti autobiografici. In ogni personaggio c’è qualcosa di me e delle mie esperienze. I loro nomi, invece, li ho presi in prestito dai grandi libri di Meša Selimović».

Nel libro emerge quel sentimento che viene chiamato “Jugonostalgia”.

«Bosnia e Macedonia sono, dopo la Serbia che ha combattuto e perso tre guerre, le due repubbliche più colpite dagli avvenimenti bellici ed economici degli ultimi decenni. Questo senso di aver perso qualcosa di importante si respira soprattutto a Sarajevo».

In che modo?

«Non sto parlando solo di lavoro, sicurezza, salute, diritto allo studio che una volta erano assicurati dallo Stato, ma soprattutto del senso di estraneità verso la continua purificazione e divisione etnica che continua da tre decenni. La maggior parte della gente si rende conto di aver perso qualcosa di molto prezioso: la tolleranza e la convivenza pacifica da cui deriva la Jugonostalgia. Ma non è l’unico esempio in Europa”»

Lei vive a Trieste. Quali sono le differenze o le similitudini con Sarajevo?

«Trieste, come Sarajevo è una città multiculturale, capace di accogliere, di prendersi poco sul serio e ironizzare su debolezze e diversità, di accettare varie culture, vari linguaggi, e di mescolare anche in cucina».

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