Sarajevo, 1425 giorni nel mirino di un fucile. I sopravvissuti: «Noi vivevamo e basta»
Sarajevo e i suoi undicimila e 541 morti, di cui almeno mille bambini e ragazzi uccisi dai cecchini serbi tra il 6 aprile 1991 e il 1996, costituiscono il tema centrale di un libro e di una “piece” teatrale costruite in cinque anni di lavoro. Luigi Ottani, giornalista e fotografo e Roberta Biagiarelli, attrice e scrittrice, sono gli autori di “Shooting in Sarajevo”, una rievocazione dell’assedio subito dalla città della Bosnia nel corso di una delle guerre “non simmetriche” innescate dalla dissoluzione della Repubblica federativa di Jugoslavia. Il libro, stampato in tremila copie da Bottega Errante Edizioni (pagg. 112, euro 20) di Udine é distribuito in questi giorni. La pièce teatrale avrebbe dovuto approdare, accompagnata da una mostra delle immagini realizzate da Luigi Ottani, negli spazi del Miela, ma a causa delle norme restrittive collegate al contenimento dell’epidemia, è stata forzatamente dirottata sul web con un appuntamento fissato per il 2 dicembre. «“Durante il lockdown non siamo mai stati d’accordo con chi paragonava la pandemia a una guerra - hanno affermato più volte gli autori di questa ricerca -. Tuttavia questa situazione di restrizione della libertà, con induzione di sensi di colpa, Stato di polizia, voglia di aria e di relazioni, ci ha fatto pensare a quanto ci avevano detto tanti sopravvissuti all’assedio che avevano sfidato il tiro dei cecchini per continuare a fare la vita di ogni giorno: noi vivevamo e basta».
Il libro contiene oltre alle fotografie realizzate da Luigi Ottani anche le testimonianze di abitanti della città assediata per quattro anni e sottoposta al fuoco di quasi 300 cecchini appostati per 1425 giorni sulle alture e in edifici abbandonati.
«Non sono essere umani coloro che hanno sparato alle persone che camminavano per le strade della loro città, ai bambini che giocavano nei cortili delle scuole, a chi si affacciava al balcone per prendere una boccata d’aria, a quelli che sbirciavano dalla finestra del proprio appartamento» ha scritto il generale Jovan Divjak che si è soffermato su chi aveva il potere di uccidere o risparmiare un altro essere umano che era entrato nel mirino ottico del suo fucile di precisione “Zastava M76”. Il cecchino decideva se premere il grilletto, colpendo a morte una ragazza mentre giocava, un bambino che passeggiava mano nella mano con la mamma, una donna in fila per acquistare il pane, una ragazza che correva per attraversare la strada, un medico in un’ambulanza, due innamorati in fugga dalla città assediata…
Le immagini di Luigi Ottani riescono a riproporre al lettore ciò che il cecchino aveva messo a fuoco col suo cannocchiale sovrapposto al fucile. Persone impegnate in gesti normali, di ogni giorno. Ma tutte le foto pubblicate sul libro hanno al centro il reticolo del mirino ottico dell’arma: una “garanzia” perché il colpo abbia la massima probabilità di andare a segno e di uccidere. Ottani ha dato alle sue immagini digitali l’aspetto delle antiche Polaroid; lo ha fatto per riportare all’indietro, agli anni Novanta, la cronologia di questa storia. Ma lo ha fatto anche per ribadire l’assoluta unicità – come le foto Polaroid - del suo “shooting”, un termine che ha un duplice significato; sparare dopo aver preso la mira e scattare una foto guardando nel mirino.
E con un occhio fisso nel mirino passavano le ore i cecchini, cercando la preda. «Alcuni di questi assassini erano orgogliosi del loro lavoro, come un certo Dragan Sljivic, un cecchino dell’esercito serbo che si è vantato davanti alle telecamere della televisione di Belgrado della sua personale strategia: aveva raccontato di scegliere come bersaglio un bambino, perché la sua morte è anche quella del genitore che cerca di soccorrerlo».
Un’altra testimone – la scrittrice Azra Nuhenfendic che oggi abita a Trieste - ricorda come gli abitanti di Sarajevo avevano imparato a evitare gli spazi aperti e a correre a zig-zag quando necessariamente dovevano attraversare un viale o una piazza. «Forse la cosa più dolorosa, la più dura, fu imparare a non accorrere subito in aiuto a chi veniva colpito. I cecchini giocavano con noi. La prima vittima veniva solo ferita: serviva da esca. Poi aspettavano che sopraggiungesse qualcuno per soccorrerla. E si divertivano a uccidere sul posto più persone».
Sulle montagne e sulle colline che circondano la città l’esercito serbo-bosniaco, oltre a 600 pezzi di artiglieria aveva schierato una brigata di 287 cecchini, alcuni dei quali si erano insediati anche nei grattacieli della città e nella caserma intitolata al presidente Tito. Gigi Riva, inviato del settimanale l’Espresso ha “guardato” all’interno di questa brigata di 287 assassini. «Quando qualcuno di loro veniva catturato lo scoprire chi fossero aumentava lo stupore: un cacciatore di cervi e ora di esseri umani, un padre di famiglia che chiedeva la pietà che non aveva avuto, una olimpionica rumena di tiro al piattello. Più tardi avrebbero confessato in carcere, durante gli interrogatori, che c’era un tariffario per le loro imprese: mille marchi tedeschi per un bambino, 800 per una donna incinta, 500 per un maschio adulto. La banalità monetaria del male, nemmeno l’alibi, seppure orrendo, di un’ideologia». —
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