Sapelli: "Trieste è vittima dell’omologazione hi-tech e il suo destino è nei rilancio dei punti franchi"

«Le hanno tolto l’anima. Come è accaduto ad altre città portuali, come Lisbona e a Barcellona. Le luci sulla pavimentazione di piazza Unità, l’igienizzazione di Cavana, la sparizione delle vecchie osterie ... Tutto pulito, tutto scontato, anche Trieste è rimasta vittima dell’omologazione hi-tech». Perchè Giulio Sapelli, uno dei più importanti storici italiani dell’economia, di Trieste ha un ricordo diverso, che risale al decennio tra il 1975 e il 1985 quando vi svolse il primo insegnamento universitario: «Anni di passioni, di discussioni, durante i quali, nascosto dal mito letterario, mi parve di scorgere la vera anima triestina: uno spietato realismo. Di cui era interprete Umberto Saba».
«Negli ultimi anni - racconta al telefono dall’abitazione milanese di via Solferino - sono tornato per il progetto del rigassificatore a Zaule, su incarico della fondazione Mattei, e per presentare il catalogo della mostra sui Cosulich, ma ho trovato una città differente rispetto a quella fonte di meraviglie che era per me nel periodo dell’insegnamento».
Poi, improvviso, un altro affondo coerente alla sua verve di polemista: «Trieste stia attenta alle lusinghe cinesi, perchè Pechino è una dittatura spietata. Non credo alle ragioni economiche di questo dinamismo, dietro al quale allignano logiche militari ed espansionistiche. Lo hanno capito gli Usa, che spero abbiano trasmesso a Trieste messaggi chiari, e lo hanno scoperto i paesi africani».
Professore, come arrivò a Trieste dalla sua Torino?
Arrivai come professore incaricato esterno, al termine dell’esperienza lavorativa all’Olivetti. Avevo ricevuto minacce dalle Brigate rosse e mi venne consigliato di cambiare aria, per cui accettai la trasferta triestina: tanto più che ero l’unico concorrente, perchè allora Trieste, sede periferica, non interessava granché. Mi occupavo di storia contemporanea e di storia dei movimenti sindacali. Ero facilitato nei viaggi dal fatto che la Fiat era ancora impegnata alla Grandi Motori e funzionava il vagone-letto da Torino.
Come organizzava la giornata triestina?
Con un ritmo implacabile. Dormivo all’hotel Corso, l’ex Aquila nera che ospitò Stendhal. Sveglia alle 6-6.30, colazione da Pepi s’ciavo a base di porcina e Terrano, un caffè doppio, una passeggiata sul Molo Audace. Poi facevo lezione alle 8.30, orario non gradito agli studenti. Le tappe successive erano la Biblioteca Hortis e l’Archivio di Stato, dove preparavo quella che avrebbe dovuto essere la storia della Ras.
Perchè quella ricerca non vide la luce?
Perchè dimenticai la prima stesura su un treno Torino-Bardonecchia! Mi dispiacque molto, perchè era il frutto dell’amicizia e delle conversazioni con Adolfo Frigessy: ricordo il suo ufficio nel palazzo dove oggi c’è l’hotel Hilton. Comunque il lavoro non andò del tutto perso, in quanto, partendo da esso, ampliai l’orizzonte di studio che divenne il libro “Trieste italiana. Mito e destino economico” pubblicato nel 1990. Perchè questo interesse particolare per la Ras? La Ras incarnava l’anima triestina cosmopolita. L’azionariato era composto da austriaci, greci, svizzeri. Diversamente dallo spirito irredentista delle Generali.
Quali erano le sue frequentazioni in quella Trieste anni ’70-’80?
Innanzitutto tre notevoli intelligenze, cui debbo molto: lo storico Elio Apih, lo storico della letteratura Giuseppe Petronio, che era preside della facoltà di Lettere e filosofia, lo psicologo Gaetano Kanitzsa. Ebbi un bel rapporto di amicizia con due studiosi di dottrine politiche come Arduino Agnelli e Giorgio Negrelli. Mi vedevo con lo storico dell’economia Tommaso Fanfani e con l’oncologo Pier Mario Bava. E mi capitava di incontrare Cesare Merzagora, allora presidente delle Generali. Un piccolo rammarico: non aver conosciuto già in quegli anni triestini Claudia Sonino, che allora era germanista all’Università e tempo dopo, in terra lombarda, sarebbe diventata mia moglie.
Un libro-chiave di quella stagione per comprendere una città per lei nuova?
“Irredentismo adriatico” di Angelo Vivante.
Cosa la colpì di Trieste?
Erano gli anni in cui nacque il Melone e la città respinse Osimo, che secondo me era la sua unica prospettiva di sviluppo per uscire dal declino. Dietro la favola della convivenza inter-etnica, mi parve di vedere un fondo di violenza, una città dove scorse il sangue, da una parte come dall’altra.
A proposito di declino, lei, con riguardo alla vicenda triestina, ha messo a punto i concetti di italianizzazione e di delocalizzazione che hanno caratterizzato l’esperienza italiana. Qual è il destino di Trieste? Può sottrarsi da questo abbrivio di decadenza morbida, governata?
Penso che le strade da percorrere siano il rilancio dei punti franchi e gli investimenti infrastrutturali, in linea con la profonda identità portuale triestina. Ma non è sufficiente intervenire su Trieste, bisogna recuperare gli errori di impostazione che furono commessi da Romano Prodi: per esempio si sarebbe dovuto realizzare un grande aeroporto internazionale a Verona, incrocio nord-sud e ovest-est, e l’alta velocità avrebbe dovuto puntare sul collegamento tra gli scali di Gioia Tauro e di Trieste. —
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