Saba poeta omosessuale che bramava la “calda vita” sforzandosi di nasconderla
Un saggio del docente e studioso di letteratura queer Luca Baldoni rilegge “Il Canzoniere” alla luce delle pulsioni omoerotiche dell’autore triestino, negate ma evidenti fin dall’inizio

Saba “tra i più significativi scrittori gay del primo Novecento”? E il Canzoniere “come uno dei grandi testi gay del XX secolo”? È la tesi perorata da Luca Baldoni con finezza di riscontri e felice disposizione comunicativa in saggi in parte già pubblicati e ora raccolti in L’altro Saba. L’omoerotismo nel “Canzoniere” (Le lettere, Firenze 2023).

Contro “i silenzi della critica negazionista”, Baldoni destruttura i “cospicui procedimenti messi in atto da Saba per negare la propria omosessualità” che tuttavia attraverserebbe il Canzoniere imprimendovi, a suo parere, una torsione decisiva, tale da imporre di leggere l’opera in modo più libero e spregiudicato, anche nelle singole molecole della scrittura poetica. “Si pensi”, così il critico in un’introduzione che funge da premessa e anticipazione, “all’amatissimo aggettivo strano” che farebbe allusione ad una “alterità verso le norme sessuali dominanti”: messa a fuoco interessante perché mostra nel tempo stesso la forza e i limiti di questo approccio.
È infatti possibile che l’“aria strana” (“l’aria natia”) di una della poesie più famose di “Trieste e una donna” alluda, per proiezione, ad una sessualità complessa, difficile da accettare nella sue forme più trasgressive, e in parte forse repressa nella fase poetica ed esistenziale degli anni dieci. Ma l’analisi è però veramente completa solo se consideriamo l’articolato intreccio di senso che quello “strana” comprende; ovvero, come disse Saba nel 1953 in occasione del settantesimo compleanno, il disagio di “nascere con un temperamento classico in una città romantica e con un carattere idillico in una città drammatica”, in una città di comunità etno-linguistiche in dura contesa, in una città che, devota a Mercurio, il dio del commercio, non sapeva che farsene di poeti e scrittori (salvo i trombettieri dell’irredentismo), come sperimentò sulla propria pelle Italo Svevo.
E che dire del senso di diversità che egli provò di fronte alla comunità della “Voce”, dello strazio di un cuore scisso tra nutrice e madre, tra cristianesimo ed ebraismo? Insomma, spiazzamento, frattura e rimozione come tratti qualificanti di una psiche. Vero è che leggendo una singola parola attraverso una lente che ingrandisce e assolutizza, si rischia di perdere di vista il tutto e annullare le sfumature. D’altra parte è innegabile che momenti importanti del “Canzoniere”, per tacere di “Ernesto” dove il coming out è di assoluta evidenza, portino la traccia di un’inclinazione omoerotica, anche in funzione della brama per la calda vita di un poeta pronto a tutte le avventure dell’esistere, l’eros in primo luogo, e che va quindi considerato, senza timidezze o censure, nella sua interezza di uomo.
Baldoni le individua con condivisibile precisione: primariamente le frequenti poesie dedicate ai fanciulli, vibranti di “irriverente sensualità antiborghese”, un tema al quale Saba si avvicina con trasporto insieme dichiarato ed eluso, traducendolo in un empito di affascinata contemplazione. Poi, secondo cronologia, la fase degli “intensi coinvolgimenti” con giovani coetanei (Chiesa e Tedeschi), quindi i testi dei primi anni Venti dedicati alla figura di Oreste, con il corollario del raccordo con il padre (che “era gaio e leggero”) e amicale (Pilade), tema che sfuma in un motivo nuovo, virando verso esiti pederastici.
Conclusivamente l’amore per Federico Almansi con le liriche che ne discendono; un episodio ormai ampiamente discusso dalla critica senza infingimenti o censure. Ed è proprio ad una delle composizioni che fioriscono al crepuscolo di questa relazione, quel “Vecchio e giovane” che molti di noi hanno scoperto a scuola, esorcizzatane la carica trasgressiva in una sorta di protettiva e intergenerazionale parentela spirituale, Baldoni dedica una preziosa lettura, vedendovi la registrazione della “fine di una grande passione” che inscena “la tragica caduta in una reciproca incomunicabilità”. Del resto Uccelli, la raccolta che segue la traumatica conclusione dell’amore (Federico scivolerà nella follia), conferma l’insostituibilità di quel rapporto, facendo svolgere agli alati protagonisti il ruolo, Baldoni richiama Debenedetti, di “succedanei di un amore deluso”. Tentativo di Saba, commenta il critico, “di offuscare la spinta omoerotica della sua poetica”.
Se fin qui tutto funziona, più arduo il tentativo di dimostrare che l’omosessualità rappresenti l’“ingranaggio fondamentale della scrittura e della costruzione dell’opera”, attribuendovi dunque una funzione generativa e architettonica rispetto al Canzoniere tutto intero. In un sinuoso percorso condotto in modo abile e con tale ambiziosa finalità dimostrativa, Baldoni deve muoversi tra detto e taciuto, esplicito e accennato, tra il dichiarato, l’attenuato e il rimosso, con un occhio sia al “Canzoniere” che ai testi espunti, e attingendo a quel deposito che la critica queer chiama closet, ovvero ciò che giace sotto il livello esplicito dell’espressione. Un’operazione che, compiuta con mano assai felice, suscita insieme plauso e scetticismo. Ha scritto Giordano Bruno, “se non è vero, è molto ben trovato”.
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