Rovatti: «In virus veritas, ovvero siamo al bivio: vogliamo più autorità o responsabilità? SCARICA GRATIS L'E-BOOK

L’e-book del filosofo raccoglie gli articoli scritti per il nostro quotidiano nei giorni del lockdown da fine febbraio a fine maggio 
Pier Aldo Rovatti
Pier Aldo Rovatti

TRIESTE Molte sono le riflessioni che gli intellettuali italiani hanno prodotto in occasione della pandemia. E chissà le valanghe di romanzi distopici che ci aspettano. Pare quindi più sano affidarsi a un pensiero critico rispetto a quello che sarà un genere di intrattenimento per lo più scontato, per non dire che di romanzi pandemico-catastrofici ne sono già stati scritti a bizzeffe.

Così “In virus veritas” (Il Saggiatore, e-book, pagg. 76) del filosofo Pier Aldo Rovatti non ci sorprende, anzi si apprezza quella lieve ironia del titolo che ci dice molto sul tema in questione, anzi sui temi: il virus e la verità. La domanda intorno a cui ruota il saggio - che raccoglie, con un ampliamento, le riflessioni firmate sul Piccolo - è infatti che tipo di verità sia quella che circola di questi tempi, o meglio, come cambia il nostro rapporto con la verità. Lo fa prendendo in analisi un arco di tempo specifico, quello della quarantena, gli scritti vanno dalla fine di febbraio a maggio. 

Un periodo che conosciamo bene, oppressi da un isolamento obbligato in cui ognuno ha risposto diversamente. Un intervallo di tempo dove le notizie più diffuse, al di là della strage virale, evidenziavano la fatica di questa prigionia, costretti alla solitudine o a una prossimità famigliare impegnativa. Mai una parola su chi ha vissuto l’isolamento in modo più sereno, affidandosi ad abitudini (anche) rassicuranti, tanto da faticare, infine, a rientrare in società. Neppure Rovatti lo fa, quando sarebbe interessante esaminare anche questo tipo di profilo.

“In virus veritas” ci dice molto su una situazione finora inedita e quanto questa esperienza collettiva abbia generato un cambiamento. Soprattutto guarda con occhio perplesso i nichilisti che non ammettono la trasformazione, forti del fatto che l’uomo sia quello che è. Certo vengono in mente situazioni ben più tragiche che non hanno modificato (eticamente) granché l’umano, ma non è questo il punto. In gioco c’è altro. La cosa singolare è come la stessa essenza del virus (e in questo caso della scienza) sia antidogmatica: «il pregio effettivo di questo sapere è costituito proprio dal suo carattere non dogmatico – si legge nel capitolo “Il virus tra scienza e responsabilità” – grazie forse all’imprendibilità di un virus che nessuno può affermare di conoscere davvero. Voglio dire che i virologi (e con loro gli altri specialisti) non si azzardano ad affermare “è così”, durerà un periodo preciso, non ci saranno onde di ritorno». Da cui le nostre incertezze, presenti e future.

Venire a un compromesso con queste insicurezze è la cosa più complessa ma anche più efficace. Di buono c’è che nelle infinite ansie e fobie da isolamento, questa pausa forzata ci ha costretti a stare fermi, ci ha costretti a pensare. È aumentato in qualche modo il senso di responsabilità civica e questo si può scorgere (anche) dall’atteggiamento disciplinato mantenuto in buona parte dagli italiani, nessuno forse se lo aspettava. Quindi una sorta di autoisolamento che traghetta la responsabilità individuale in quella collettiva, ma attenzione, nessun buonismo o collasso retorico: «L’egoismo è certo ancora galoppante e si nutre, come sappiamo, di un’idea di libertà alquanto astratta. Lo ha detto bene Ezio Mauro in un recente editoriale sulla Repubblica: se vogliamo ridare vita alla parola “democrazia”, oggi abbastanza acciaccata, dobbiamo far stare assieme l’egoismo e la libertà. Ecco cosa può significare essere responsabili: contenere il nostro sfrenato egoismo nel momento stesso in cui ci rendiamo conto di dover mettere da parte la voglia di una libertà senza freni».

Si indaga insomma su un’idea, su un salto di percezione intorno a una libertà responsabile. Una speculazione ben lontana da un immaginario incorporeo, il merito di Rovatti è sempre stato questo, calare il pensiero in un’istanza pratica. Per cui è vero, si può esaminare una nuova percezione del tempo e dello spazio (il “presente remoto”), una nuova idea di morte, di prossimità o di introspezione, ma sempre partendo da un’esperienza frontale e comune a molti: come vedere il figlio giocare attraverso una virtualità che lo rende vicino e lontano dagli altri. O ancora subire il giudizio ostile per una mascherina abbassata – com’è capitato a tanti – e chiedersi quanta parte ha il poliziotto che vive in noi. O giungere a quell’io «che diventa noi» non per tortuose strade intellettualistiche, ma attraverso la genuina testimonianza di un’infermiera vista in tv. Il che rende tutto più semplice. Ma non facile. Dobbiamo fare i conti con una nuova idea di “normalità” senza rimpiangere la vecchia.

Siamo arrivati a un bivio, ci sta dicendo Rovatti. Sta a noi scegliere tra «un regime di vita più disciplinare e autoritario e una condizione soggettiva in cui ciascuno di noi potrebbe scoprirsi più responsabile, meno disposto ad accettare qualunque irreggimentazione», un “io” che si scopre essere anche un “noi” più liberamente, più responsabilmente. Su un muro di Trieste, vicino alla casa dell’autore, è stato appunto scritto: Andrà tutto bene solo se andrà bene a tutti.

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