"Rosalba" di Patrizia Sorrentino: il racconto integrale

Per gentile concessione dell'autrice, pubblichiamo qui il racconto "Rosalba" della triestina Patrizia Sorrentino, che ha ricevuto una menzione speciale dall'Ordine regionale dei giornalisti al concorso letterario sulla memoria smarrita "La nonna sul pianeta Blu" promosso dall'associazione De Banfield. A causa del coronavirus l'evento di proclamazione dei vincitori è stato rinviato a data da destinarsi
di PATRIZIA SORRENTINO
Stanno lì, piantati, e non si muovono. Neanche si vede se respirano, ma si sa che lo fanno, perché sono vivi. E si sa che sono vivi, perché sono verdi: gli alberi. Ma, se spostiamo la nostra prospettiva dal tronco ai ramoscelli, diventano entità estremamente dinamiche. Basta un alito di vento.
Le radici ben piantate nella terra sono essenziali per la vita di qualsiasi pianta e – in quanto organo di accumulo – le garantiscono una funzione di riserva ed ecologica, poiché imbrigliano il terreno circostante. Gli apparati radicali si diversificano per aspetto fisico e per particolari funzioni specializzate, che sono chiamati a svolgere in relazione all’ambiente in cui vivono.
La campagna friulana era l’ambiente nel quale lei affondava le sue radici e la cultura contadina era l’humus della sua crescita. Rosalba era andata sposa ad Arturo e alla sua comunità famigliare, Il figlio che erediterà la terra continua a risiedere nella casa paterna anche dopo il matrimonio. E se parte per la guerra e lascia la moglie incinta, se non ritorna e di lui dicono “disperso in Russia”, allora Rosalba e il nuovo nato, Maurizio, diventano soltanto due bocche in più da sfamare: eredi necessari, che non possono essere esclusi dalla successione. E il patriarca, ormai molto anziano, e gli altri figli e le nuore pensano a chi toccheranno i campi e le bestie alla sua morte.
“Che almeno lavori” dicono “Che almeno in parte compensi la fortuna che le è toccata.” E il figlio? A Carraria, Cividale del Friuli, all’incrocio della salita per Castelmonte, al Collegio per gli orfani di guerra. Rosalba si sveglia all’alba e comincia a occuparsi dell’uomo anziano che accudisce le mucche. Un malato mentale innocuo e gran lavoratore, ma incapace di tenersi pulito; 2 accolto e sfruttato: senza stipendio, senza giorni di riposo; solo il vitto e un giaciglio nel casotto degli attrezzi vicino alla stalla. L’uomo ha pochi denti e Rosalba gli porta da mangiare pane e latte alla mattina e pane e minestra a pranzo e a cena. Tanto pane, che l’uomo mastica a lungo seduto su una balla di fieno
. Dentro la minestra la pasta stracotta o il riso, lungo che ti viene incontro, perché all’uomo piace spiaccicare tutto con il cucchiaio e fare una poltiglia del cibo e mentre lo porta alla bocca ride e si sbrodola e fa un verso che ricorda il muggito delle mucche. Un pezzo di formaggio e, a volte, la carne e sempre le patate, perché lui, che ha patito la fame, senza le patate non gli sembra neanche di mangiare. La verdura e la frutta cotta solo alla sera e quando Rosalba – la casa già diventata silenziosa – va da lui a ritirare i piatti, l’uomo le sorride e biascica l’unico grazie che lei si senta rivolgere. In quella casa Rosalba è la serva: cucina, fa le pulizie, stira e rammenda, bada ai bambini e al patriarca.
Le sue mani sono un’appendice instancabile e compassionevole della sua volontà. Cordate e smarginate, percorse da nervature sono sempre più rosse e spesse, indurite e gonfie, quasi gommose solo le dita. Saettano e s’incuneano, dal lunedì alla domenica, giorno dopo giorno, fino al giorno festivo di un mese qualsiasi – che mai è lei a scegliere – quando le permettono di andare a trovare suo figlio Maurizio. I soldi solo per la corriera, perché la pensione le serve per il collegio, ma la volontà canta ed è solo desiderio. Il tempo passa, il figlio cresce e il patriarca muore. La divisione dell’eredità le permette di andarsene e di avere una casa che intesterà anche al figlio. Vivono insieme adesso. Ma ancora le sue mani si prestano gratuitamente per rammendare la roba dell’uomo della stalla e, alla sua morte, per cucire “adesso che non hai più niente da rammendare”: accorciare, stringere, mettere una cerniera, un bottone, due bottoni, un vestito di Carnevale, una gonna, una camicetta. Come un vento.
Alito, brezza e le sue mani si muovono. Per paura della tempesta si piega. Il figlio va e torna, perché ormai studia a Trieste e a Trieste troverà lavoro e metterà su casa: triestina è la donna che sposa. Nuora straniera, accettata di testa, mai di pancia. 3 E il cuore c’entra poco. Di più con le nipoti: una, due, tre e quattro. Arrivano tutti il venerdì sera e ripartono la domenica pomeriggio. Mai con le mani in mano, anche senza vento, col solo fiato, che si condensa in alto. Rosalba con le mani a conca a raccogliere le uova nel pollaio, mattina presto d’inverno e il fuoco da accendere in cucina. Mani che impugnano: mestolo, ago, rastrello, uncinetto, forbici e coltelli. Di nuovo saettano e s’incuneano. Il pollo ripieno e i piselli da sgranare. Avvitano barattoli di salsa, spalmano creme, massaggiano e strappano erbe infestanti.
Due giorni alla settimana, per loro ancora cibo da portare a casa e alla fine Rosalba mani che salutano. Rosalba che aspetta il prossimo fine settimana. E sembra che, senza di loro tutto si fermi. Ma Rosalba mani in grembo percorre – sfregando con il palmo di una mano il dorso dell’altra, alternativamente, con un movimento continuo – forse tutta la circonferenza terrestre. Per un tempo infinito. Com’è il tempo dell’attesa. Ma resiste. Per suo figlio, come sempre, resiste. Coriacea. Riesce a rigenerare completamente gli apparati epigeo ed ipogeo anche se danneggiati: così qualche pianta. E lei: fuori e dentro. Di Rosalba e delle sue emozioni poco traspare; eppure plasma, a sua misura, le relazioni famigliari: con la nuora, con le nipoti. Sono le sue mani a segnare il passare degli anni; tendono a scurire e sono sempre più nodose. Come il tronco dell’ulivo.
E lei, come le olive, ha sempre un sapore amaro. Amarissimo, dal giorno in cui il figlio si ammala di tumore e Rosalba è solo occhi per piangere. E poi lui muore e lei no. E la vita che le resta è una drupa con un nocciolo legnoso che cresce a dismisura. E poi, poco per volta, comincia a dimenticare il nome delle nipoti, le piccole cose e si confonde. Disimpara perfino come si fa a cucinare. Eppure nel suo sistema relativamente equilibrato riescono a trovare posto tutte le mancanze e Rosalba rifiuta 4 l’aiuto di una persona in casa, almeno fino quando non iniziano a proliferare altri sintomi nocivi. Più che dimenticare, temeva di dimenticare e riempiva il calendario di cerchi, stelline e punti esclamativi. Sicura che le sarebbe bastato.
Ma poi cominciò ad aggiungere dei nomi in corrispondenza delle date: erano i compleanni delle nipoti, e delle note: le scadenze delle bollette, l’appuntamento dal medico per la visita di controllo e poi, in cima alla pagina, cominciarono ad apparire i numeri di telefono. 040 307720, quello della casa di Maurizio fu l’ultimo. “Per sicurezza”, disse alla nuora. E venne la volta dei pranzi della domenica. Il brodo a volte sciapo, a volte troppo salato. “Non sento più i sapori” si scusava. E “voglio essere sicura”, quando controllava la ricetta del pollo ripieno, scritta a mano da lei quarant’anni prima e puntualmente riproposta a ogni evento importante, oppure quella della torta della nonna, come la chiamavano sempre le bambine. Non più tali orami, ma per lei “frutis”. Tutti “frutis” quando, ormai bisnonna, non ricordava i nomi dei nuovi nati. Per i lavori dell’orto aveva appeso nello stanzino degli attrezzi un altro calendario, che consultava per le semine e le potature.
Sosteneva però che c’era qualcosa nell’aria, nel sole, nella pioggia, perché le sue verdure stentavano a crescere e le erbe infestanti si moltiplicavano e i pomodori si ammalavano e le galline facevano poche uova. Ipotizzò che fosse colpa dei vicini e lo disse quasi per scherzo, ma comprò un lucchetto per chiudere la porta del pollaio. E intanto le ore di ogni mattina le sfuggivano di mano, da quando, seduta al tavolo della cucina, faceva fatica a scrivere la lista della spesa. Le mani erano scollegate da lei e rispondevano a schemi di segnali diversi. Lei guardava e le dita si sfregavano l’una contro l’altra, la penna le sfuggiva di mano e lei guardava. Il tempo passava. Dissero che il suo cervello si distendeva in placche, si stava accartocciando lentamente, si aggrovigliava. Dissero qual era il morbo e che non si poteva più lasciarla da sola. 5
Ma lei era sempre più sospettosa e non avrebbe voluto nessuno in casa. Poco alla volta però il suo bisogno di assistenza aumentò, anche per l’aggravarsi di alcune limitazioni fisiche che le resero prima difficile e poi impossibile muoversi autonomamente. Accettò quindi la badante, e sempre di più non poté fare a meno di lei per svolgere le attività quotidiane più banali, anche la sua igiene personale e questo costò una serie di scenate alla badante. Rosalba, in questi frangenti, non era più lei e interloquiva in modo volgare, urlava e arrivò perfino a mordere la donna che tentava di lavarla e cambiarla. Andò un poco meglio quando non volle più mettere la dentiera, che nascondeva sotto il cuscino o gettava nelle immondizie. Almeno non mordeva. La prima badante non resse lo stesso a causa delle urla e della cattiveria di Rosalba che, a volte riconoscendola, altre senza sapere chi fosse, la aggrediva con male parole. Altre badanti comparvero all’orizzonte, più abituate a contenere quella crescita virulenta e incontrollata di una nuova personalità che si stava impadronendo di Rosalba come una pianta parassita su un vecchio tronco. Meglio di tutto andò con Alina, un’ucraina che la chiamava babushka e le voleva molto bene.
Ma Rosalba, che – per un periodo, come i bambini – aveva scambiato la notte per il giorno, parlava di uomini che col buio venivano a trovare Alina e cercavano soldi e gioielli. Se ne andò anche Alina, ma arrivò Flaviachenonsimeravigliadiniente. Tre settimane si fermava lei e tre settimane la sua amica Mira, croate, entrambe. Affidabili, attente, accoglienti. Contenitive, perché ormai si trattava di contenere il niente, che cominciava a dilagare. Lo sguardo vuoto di Rosalba riempito di momenti di terrore per una nuova presenza, l’infermiera del distretto che, al sabato aiuta la badante di turno a lavare Rosalba sotto la doccia. Urla Rosalba, perché quell’infermiera con i capelli corti sembra un uomo e lei non vuole lasciarsi spogliare. A stento, dopo qualche sabato di urla e smanie e contorcimenti e pianti si riesce a capirlo e un’infermiera con i capelli lunghi fa il suo ingresso in casa al posto della prima. Tutto si complica e, insieme, si semplifica.
Flavia che non si meraviglia di niente la alza dal letto alla mattina e la prepara per la giornata. Rosalba è resistente, ma non è 6 opportuno che sia colpita dal sole di mezzogiorno. Resta preferibilmente in casa e sono da evitare le correnti. Preferisce una posizione con molta luce, ma fresca. Davanti alla televisione accesa per esempio. Talvolta sorride allo schermo e talaltra sembra reagire alle immagini che le scorrono davanti. Muove le dita e impasta la coperta che Flavia le ha messo sulle ginocchia rimboccandogliela di lato, in modo che ci sia del morbido fra le sue anche e i braccioli della sedia a rotelle.
Flavia, che adesso studia l’italiano a voce alta da un testo che si è portata da casa, è seduta vicino a lei e le si rivolge di continuo. Inutilmente. Rosalba mangia imboccata e, si sa, ha spesso bisogno di acqua. E di cambiare pannolone, e di essere svestita, perché fa troppo caldo, o coperta, perché la temperatura si è abbassata. Della messa in piega si occupa Flavia e anche di tagliarle le unghie, o di ungerla e controllare che non ci siano piaghe. Altrimenti si telefona al Distretto e qualcuno viene. Viene anche il medico e le parla cercando di snidare quel sé perso fra sinapsi e viluppi. Inutilmente, si sa. Eppure, capita che Rosalba ritorni. È un’incursione di alieni e fra alieni. E allora lo sguardo torna vigile e si può raccontarle di quando d’estate raccoglieva i pomodori, chili su chili, e preparava la salsa e la metteva nei vasi e tutto bisognava bollire e sterilizzare e capovolgere. Era il tempo che le galline facevano sempre tante uova. E ride, ride Rosalba e poi va via di nuovo.
E chi è lì con lei comincia a sentire odore di legno marcio e guarda un tronco che era poderoso e lo vede rinsecchito. E se le finestre sono aperte e c’è un alito di vento le dita di Rosalba si muovono: tasta, cerca, smania. Flavia le dà una salvietta e lei la sminuzza in pezzetti sempre più piccoli, sempre più piccoli. Sottili, come il filo che usava per i suoi centrini di pizzo. Sottile, quasi invisibile, è il filo che la collega alla vita mentre lei è già da un’altra parte: lì dove ora respira. E si sa che sono vivi, gli alberi, perché sono verdi. E sono verdi perché respirano, altrimenti sarebbero blu. Ma forse, su un pianeta blu, anche gli alberi sono blu, eppure respirano, eppure sono vivi.
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