Resistenza difficile nella Trieste divisa da odi e sofferenze
di PIETRO SPIRITO
Le immagini dei 51 ostaggi impiccati dai nazisti il 23 aprile 1944 all’interno del palazzo Rittmeyer, allora trasformato dalle autorità germaniche in Soldatenheim (Casa del soldato), come rappresaglia all’attentato lì compiuto il giorno prima da due partigiani d’origine azerbaigiana e costato la vita a cinque tedeschi, sono e rimangono il simbolo non solo della spietata occupazione e repressione nazista a Trieste, ma anche della complessità della lotta di Resistenza in questa città e in tutto l’Adriatisches Küsteland, la Zona d’operazioni del Litorale Adriatico. Perché qui la lotta di Liberazione fu una Resistenza «composita e diversamente orientata», dove «i problemi di carattere internazionale nonché il confronto tra due realtà statuali diverse (quella italiana, dopo vent’anni di regime fascista, e quella jugoslava che si andava definendo sotto il controllo di Tito) incidono profondamente sugli eventi in corso». Una Resistenza che ha posto e ancora pone non poche questioni di carattere storiografico agli studiosi, per i quali l’indagine su quegli anni rimane un cammino difficile. E appunto . “Il difficile cammino della Resistenza di confine - Nuove prospettive di ricerca e fonti inedite per una storia della Resistenza nel Friuli Venezia Giulia” si intitola il volume appena pubblicato a cura di Anna Maria Vinci dall’Istituto regionale per la storia del movimento di Liberazione (pagg. 382, euro 20,00), che viene presentato oggi a Trieste, alla Libreria Ubik in Galleria Tergesteo, piazza della Borsa 15, dallo storico Giovanni Contini. È un volume collettaneo che, come dice il titolo stesso, getta nuova luce sulla lotta di Liberazione in queste terre, con una linea interpretativa particolarmente orientata sul ruolo delle donne. La pattuglia degli storici presenti nel volume è composita come l’argomento di cui tratta: Gloria Nemec, Franco Cecotti, Vittorio Coco, Marina Rossi, Gorazd Bajc, Anna Di Gianantonio, Francesca Bearzatto, Chiara Fragiacomo, Fabio Verardo, Irene Bolzon e la stessa Anna Maria Vinci.
Un cammino difficile studiare la Resistenza in queste terre, spiega Vinci, «anche perché dal punto di vista metodologico, un confronto ben attento e calibrato tra la storiografia italiana e quelle dell’ex Jugoslavia si sta costruendo solo negli ultimi tempi, non senza fattori di problematicità». «Abbiamo scelto - continua Vinci - di ascoltare le voci delle donne, di quelle che combattono, di quelle senz’armi, di quelle che restano dopo le stragi e l’uccisione dei familiari; e poi dei molti, e molte che cercano di sopravvivere e/o di approfittare della realtà di un mondo capovolto».
Non caso il libro si apre con il saggio di Gloria Nemec sulla strage di via Ghega. Poco meno di due anni fa gli storici dell’Irsml lanciarono un appello pubblico per cercare nuove testimonianze sui fatti e sulle vittime dell’eccidio. Qualcuno ha risposto, e il saggio della Nemec ricostruisce così nel dettaglio la vicenda, al punto che la terribile fotografia del gruppo di trucidati concentra e rappresenta «le varie anime dell’antifascismo diffuso nei territori d’occupazione: da quello studentesco della borghesia cittadina, a quello degli operai e artigiani dei quartieri popolari e degli immigrati a Trieste per motivi economici o militari, a quello dilatato nel circondario sloveno sino alla bassa valle del fiume Vipacco, alla massiccia presenza dei provenienti dalla zona di Postumia (Postojna)». Una delle testimonianze portanti è quella lasciata da Editza Loke, amica di una delle vittime dell’eccido, Laura Petracco (il cui fratello Silvano fu anch’egli impiccato dai nazisti il 29 maggio), madre dello storico Giorgio Negrelli cui il libro dell’Irsml è dedicato. Editza, sedicenne al tempo della strage, molti anni dopo offrì a Giorgio Negrelli le sue memorie, che adesso illuminano «le tappe e le dinamiche interne della formazione culturale e politica di un gruppo di liceali che frequentava casa Petracco negli anni Quaranta». Era un piccolo mondo studentesco che gravitava attorno al liceo Petrarca, «scuola di antifascismo per molti». Questi ragazzi si consideravano «comunisti da caffè o da osteria», come ricordò in seguito un’altra protagonista, Licia Chersovani, e molti di loro finirono nelle fauci dei nazisti. Ma fra le vittime di via Ghega scopriamo come «altri giovanissimi carcerati, torturati, impiccati provenivano dal circondario triestino e da famiglie slovene ove diversi livelli di opposizione al fascismo erano sedimentati nel lungo periodo». Dando nome e volto a condannati e carnefici, il saggio di Gloria Nemec ricostruisce le torture inflitte ai prigionieri, il modo in cui vennero scelti - e da chi -, gli ostaggi da uccidere, buona parte dei quali «giunse sul luogo dell’impiccagione in gravi condizioni o già morta». Una ricostruzione capillare dell’eccidio, dunque, che ancora una volta apre a uno squarcio sulla Trieste collaborazionista e connivente con i nazisti, i quali avevano pianificato il risorgere dell’anima “germanica” della città. Anche se alla fine la strage ebbe l’effetto contrario di portare «alla crisi finale quel municipalismo nostalgico e velleitario, definito da Galliano Fogar come “carico di vischiose ambiguità”, che aveva offerto a parte della borghesia locale un ancoraggio politico e psicologico».
Altra luce su quella stagione buia la fa il saggio di Vittorio Coco che analizza personaggi e funzioni dell’Ispettorato generale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia, all’ombra del quale operò la famigerata “banda Collotti”. L’ispettorato, spiega Coco, «rappresentava l’esito più perfezionato di una metodologia di intervento (...) sperimentata in altri contesti quali la Sicilia e la Sardegna, rispettivamente nel contrasto alla mafia e al banditismo». L’Ispettorato, scrive ancora Coco, «poteva disporre di un personale di altissima professionalità, a cominciare dal suo dirigente, l’ispettore generale Giuseppe Gueli», che in seguito sarebbe stato condannato a otto anni ma poi amnistiato. I metodi adottati dall’Ispettorato furono efficaci anche grazie a «un uso indiscriminato della violenza sui prigionieri». Questo violenza «forsennata e disperata», come la definì Elio Apih, «non sarebbe stato altro che un tentativo estremo da parte dei regime di marcare la propria presenza in un territorio su cui, di fronte al dilagare della resistenza, stava ormai perdendo presa».
Nel libro ecco poi le protagoniste prime, le donne. Come Katra, la staffetta dei partigiani sovietici (raccontata da Marina Rossi), o come Alba Perello, “Zora”, nata a Trieste da un matrimonio misto - padre “regnicolo” e madre slovena -, che già nel ’38, racconta lo storico Goarzd Bajc, entrò a fare parte della Lega della gioventù comunista di Jugoslavia e morì nel 1945 nel campo di concentramento di Ravensbrück. Oppure Giuditta “Dikta”, «partigiana italiana e slovena in conflitto tra i due mondi» (Anna Di Gianantonio). Ancora, ecco le donne di Frisanco, che risposero in vario modo alle sfide della guerra: «Elena Tramontina tenta di sopravvivere tenendo se stessa e le figlie il più possibile immuni dalla miseria e dalla violenza; le donne della famiglia Dreon di Dour scelgono di collaborare con i partigiani come forma di sostegno al fratello e alla comunità locale costituita da un’intricata realtà sociale (...)Bruna Roman è staffetta partigiana in una famiglia attiva nella Resistenza...».
Storie, volti, nomi: «Se l’immagine del teatro greco può aiutarci in questo percorso - sottolinea Anna Vinci -, ecco allora comparire nell’area riservata al coro un affollarsi di voci femminili», «corpi di donne straziati dalle torture e dalla morte violenta», e « poi un pullurare di figure minori, complici di piccolo calibro che narrano una storia di denunce e delazioni..». Altri tasselli di quel complesso puzzle che è e rimane la “Resistenza difficile”.
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