Quel “grazie” che dà senso alla vita e ci salva mentre l’esistenza scivola via

La storia di Michka e del suo ultimo desiderio è un ritratto delicato e commovente della vecchiaia

ELISA COLONI

Vi siete mai chiesti «quante volte al giorno dite grazie? Grazie per il sale, per la porta, per l’informazione. Grazie per il resto, per il pane, per il pacchetto di sigarette». E «vi siete mai chiesti quante volte nella vita avete detto grazie sul serio? Un vero grazie. Espressione della vostra gratitudine, della vostra riconoscenza, del vostro debito». Bastano poche frasi a Delphine de Vigan, nella prima pagina di “Le gratitudini” (Einaudi, pagg. 160, euro 16,62), per andare dritta al cuore del suo romanzo e spiegare in modo semplice, quanto profondo, la differenza ciclopica che esiste tra sei lettere pronunciate da tutti noi ogni giorno per pura forma, cortesia o dovere, e quel “grazie” dal significato autentico e commovente che non esce solo dalla bocca, ma anche dall’anima. Quella manifestazione di riconoscenza che, nella vita, si mostra poche volte o non si mostra proprio, perché non ce la si fa. Quello che può emozionare o turbare troppo per essere tirato fuori dalla gola; quello che si rimanda e che non si ha il tempo di consegnare a chi si vuole bene.

La protagonista della storia, la signora Michèle Seld, detta Michka, dice “gratis”, al posto di “grazie”, così come “fa pena” invece di “va bene”, “diffuso” al posto di “difficile” o “sermone” per “salmone”. E non perché sia stramba, ma perché soffre di afasia: da ex correttrice di bozze per un’importante rivista francese, il destino ha riservato una declinazione beffarda e particolarmente amara per la sua vecchiaia. Dopo anni trascorsi a passare frasi al setaccio e a dare la caccia ai refusi, l’anziana signora d’Oltralpe perde il controllo delle parole, ossia di ciò che per tutta la sua esistenza è stato il suo mondo, il suo terreno di gioco. Mentre consuma i suoi ultimi giorni in una casa di riposo, i vocaboli le si confondono nella mente, si accavallano e spariscono, spingendola verso un angolo di triste e rassegnata impotenza. I ricordi di una vita brillante e vivace lasciano posto a un presente fiacco, a un’esistenza “a metà”, che regredisce a giornate fatte di biscottini e sonnellini, e a terrificanti incubi notturni che la vedono indifesa vittima delle angherie di una malvagia, quanto fittizia, direttrice.

D’altronde, come scrive de Vigan in un’altra bella pagina del suo libro, «invecchiare è imparare a perdere. Incassare, ogni settimana o quasi, un nuovo deficit, una nuova alterazione, un nuovo danno». Non è solo la conta delle conseguenze del logorarsi del corpo e delle mente, ma anche e soprattutto «perdere ciò che ti è stato dato, ciò che hai guadagnato, ciò che hai meritato, ciò per cui hai combattuto, ciò che pensavi di tenerti per sempre». Quasi tutto il romanzo è un dialogo alternato tra Michka e Marie, una giovane ex vicina di casa cresciuta in un contesto familiare difficile e aiutata dall’anziana come fosse una figlia, e tra Michka e Jérôme, altrettanto giovane ortofonista che lavora nella struttura residenziale, e che prova instancabilmente a farle ritrovare le parole, in una lotta contro un tempo e un destino che inevitabilmente non si possono deviare. Entrambi diventano per Michka sicuri salvagenti affettivi cui aggrapparsi mentre la vita le scivola via, creando con loro un rapporto affettuoso e delicalto, ironico e intellingete, di reale arricchimento reciproco: di vera e profonda gratitudine. Saranno i due trentenni a sostenere la donna nel tentativo di realizzare il suo ultimo desiderio: dire il suo “grazie” più grande, a coloro che, da bambina, le salvarono la vita; un gesto di riconoscenza cercato e rincorso per decenni.

Delphine de Vigan, che ha esordito nel 2001 con “Giorni senza fame” (Mondadori) e che in molti hanno apprezzato per “Le fedeltà invisibili” (Einaudi, 2018), in questo suo nuovo lavoro offre un affresco commovente e aggraziato della vecchiaia. Scritto ben prima che il coronavirus dilagasse nel mondo e portasse alla luce il dramma di un contagio che colpisce soprattutto gli anziani, negando loro, tra le mura domestiche o nelle case di riposo, un addio tra l’affetto dei propri cari, l’autrice francese ha firmato un romanzo che oggi è fin troppo attuale e che, a dispetto dei temi trattati, non è affatto triste e tetro, bensì luminoso, tenero, delicato, dalla prima pagina fino alle ultime, dove passato e presente (e forse, chissà, anche futuro) si uniscono. —



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