Quel giorno al Luna Park ho visto le lacrime sul volto di mio padre
Come sono finito qui sul mare? È una storia lunga, non sono nemmeno sicuro di ricordare com'è iniziata. È solo che le cose a un certo punto hanno preso a scivolare via trascinandosi dietro tutto il resto. Come quando cammini sui sentieri di montagna e per sbaglio muovi un sasso, e quello comincia a rotolare a valle, e si trascina dietro altri sassi, pietre e poi un intero pezzo di ghiaione. Di solito tu resti a guardare dall'alto la frana, dal punto fermo osservi il piccolo disastro che hai appena innescato. Invece io mi sono attaccato a quel primo sasso (lanciato con mano esperta, bisogna pur dirlo), e ho preso a scivolare giù - surfando benissimo sulle macerie delle mie care cose che si sgretolavano.
Non era previsto. Non era prevedibile questo epilogo in mezzo al mare su una barchetta solitaria. Non era da me.
Infatti già mi correggo. Questa non è una barchetta solitaria. Se pensate che io sia finito per caso in quest'ormeggio, vuol dire che non mi conoscete per nulla. Il caso, con la sua ambigua assonanza con destino, è il mio peggior nemico. Non viene mai nulla di buono da questa sciocca disposizione d'animo. Guardateli bene quegli smidollati che sono sempre pronti a cambiare i progetti della giornata perché per caso alla fermata dell'autobus si imbattono in qualche vecchia conoscenza. O peggio ancora, quelli che non esitano a stravolgere la propria vita perché a una cena si sono trovati seduti accanto a quella tal persona che portava il profumo di mandorla e palloni estivi calciati contro un muro. "È stato un caso" dice ridacchiando la ragazza innamorata, "non ci pensavo proprio figurati, è che è venuto per caso ad abitare a pochi passi da casa mia. Lo vedi, era destino."
Quale ingenuità! Non esiste nessun caso. Ho scelto accuratamente questo esilio e se voi sapeste cosa accade nelle stanze, dietro le tende di quelle finestre al primo piano del quarto palazzo sulla sinistra, a salire dal mare, lo capireste.
E poi non sono nemmeno nel mare. Questa è una striscia d'acqua i cui confini sono delimitati da tre lati e al massimo può salire un po' più in alto comprimendo l'aria o riscendere giù. Non c'è apertura verso lo sconosciuto al largo, niente imprevedibilità.
Come vedete, trascinandomi qui, in fondo non tradisco nessuna aspettativa. Sono sempre prevedibilmente io. Io dopo la frana.
Certo i miei genitori avrebbero qualcosa da dire. Mia madre soprattutto, è lei che mi ha cresciuto da buon terrestre. È lei che scuoterebbe la testa se sapesse di questa barca e del binocolo. A guardare bene potrebbe essere tutta colpa sua. No, semmai di mio padre.
Già quando sono nato mio padre non c'era e fu mia madre a scattare la foto di rito: io sfinito tra le sue braccia, immortalato dall'autoscatto di un'Olimpus economica. Un selfie senza il vergognoso bisogno di sorridere a se stessi. Nell'inquadratura siamo un po' mossi, già con il mal di mare. A essere in mare aperto invece era mio padre, o così almeno mi è stato raccontato. Fino il mio decimo compleanno posso dire di non aver ricordi con lui, anche se in molti hanno detto che parlava spesso di me e si capisce che hanno creduto alla favola del padre responsabile. Ma io per dieci anni nulla. Solo mia madre che mi mette il mercurocromo sul ginocchio perennemente sbucciato, che mi fa trovare i centesimi sotto il bicchiere al primo incisivo caduto, mi prepara il panino con la mortadella quando torno dal ricreatorio. Poi, drammaticamente, quell'assurda gita al Luna Park, io e lui. Per festeggiare.
Naturalmente ho cancellato ogni traccia di quella sera. Eppure, lo confesso ora, non sono riuscito a fare del tutto piazza pulita.
Ho sempre ricordato la consistenza meravigliosamente soffocante dello zucchero filato che mio padre mi comprò per tirarmi dalla sua parte, ostentando sprezzo verso i precetti di mia madre che l'aveva sempre proibito. La mia sconfinata felicità, la delizia che si accompagna sempre alla vergogna di stare tradendo chi amiamo per un godimento da poco. La manciata di zucchero filato che mi riempie la bocca e improvvisamente diventa sottilissima contro il mio palato, polvere di zucchero, polvere magica, e svanisce. Come il miracolo dell'ostia che si decompone sulla lingua assolvendo il peccatore.
Poi, prima di andarcene, il giro del safari acquatico che mio padre insiste per fare. Noi due sul gommone gonfiabile con i disegni delle impronte d'animali e la ragazza con il megafono e le unghie rosa caramella che racconta i record di giraffe e giaguari indicando le sagome di cartapesta. Io da sempre sono stato portato a credere a qualunque storia e mi incanto mentre giriamo in quel serpente d'acqua artificiale: vedo savane, orizzonti torridi, mandrie di bufali nella polvere. Quando all'arrivo suona la campana per la discesa mi volto estasiato per raccontare a mio padre il mio sogno a occhi aperti. Lui sta piangendo. Mio padre marinaio da diecimila leghe è in lacrime e non fa nulla per nasconderlo. Perfino io a scuola ho imparato a mandare giù i singhiozzi senza farmi scoprire, ma lui niente. Lo faccio alzare in piedi tenendolo per mano. Lui obbedisce, ma una volta fuori dal gommone lascia la mia mano e cammina verso la ragazza del megafono, dandomi le spalle.
Non ricordo cosa accadde dopo, ho solo un'immagine sfocata di me che vomito lo zucchero filato dietro la pista degli autoscontri, e non c'è mamma a tenermi la fronte. Ma non piango, non faccio come mio padre.
Dopo quel giorno, l'ho rivisto al funerale. Non prima, sia chiaro. Non in ospedale e neppure nei lunghi giorni a casa quando tutti i nostri conoscenti hanno trovato il tempo e il coraggio di suonare il campanello e mettermi una mano sulla spalla, sussurrarmi banali parole per darmi forza. Lui no. Ma al funerale c'era. Ha fatto sì che lo notassero ma non ha detto una parola, nemmeno a me. Una settimana dopo mi ha fatto recapitare un biglietto, molto sentito, in cui mi invitava a partire con lui per mare.
Naturalmente io odio l'acqua e non so nuotare. Non avrei mai messo piede su una barca non fosse successo quello che è successo.
Tutta la vita ho cercato di essere un buon terrestre, per amore di mia madre, mi ci sono applicato con volontà e non senza talento. Ma non avevo tenuto conto, che il mio cuore era debole al canto delle sirene.
(2 – Segue. La prima puntata è stata pubblicata il 27 luglio)
@federicamanzon
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo