Quarantotti Gambini, un irregolare che l’Italia ha dimenticato in fretta

di Alessandro Mezzena Lona
Lui si sentiva un «italiano sbagliato». Un irregolare, incapace di attirarsi le simpatie dei conserrvatori o dei progressisti. Al punto che Pier Antonio Quarantotti Gambini, autore di romanzi importanti e belli come “L’onda dell’incrociatore” e “La calda vita”, è tramontato molto presto. Lasciando un ricordo forte di sé, e della sua produzione letteraria, soltanto a una sorta di consorteria fatta di pochi estimatori.
Tra questi c’è, senza dubbio, lo scrittore triestino Mauro Covacich. Autore pure lui di romanzi belli e importanti come “A perdifiato”, “Prima di sparire”, “A nome tuo”, che con il libro di racconti “La sposa” parte tra i favoriti al Premio Strega 2015. Da sempre intruppato tra gli amatori della prosa di Quarantotti Gambini, proprio in occasione dei cinquant’anni dalla morte dello scrittore, nato nel 1910 a Pisino d’Istria, ha curato un volumone di “Opere scelte” per Bompiani (pagg. 1312, euro 30). Una sorta di “il meglio di” che arriva nelle librerie domani.
Interessante la scelta delle opere di Quarantotti Gambini firmata da Covacich. Se ad aprire il libro non poteva mancare quel gioiello narrativo, accompagnato da un titolo inventato dal poeta Umberto Saba, che è “L’onda dell’incrociatore”, sorprende piacevolmente trovare di seguito “Amor militare” “Il cavallo Tripoli”, “I giochi di Norma”, che nel 1971 il fratello Alvise avrebbe riunito nel volume einaudiano “Gli anni ciechi”.
Con “Primavera a Trieste” si spalanca una finestra sugli anni terribili vissuti, dopo la Seconda guerra mondiale, in questo angolino d’Italia. Gli anni del Governo militare alleato e dell’arrivo del IX Corpus titino. Non mancano, per fortuna, “Un antifascista epurato”, che racconta la scandalosa cacciata dello scrittore dalla Biblioteca Civica, e la lettera scritta in sua difesa da Umberto Saba, Virgilio Giotti, Giani Stuparich e Fabio Cusin. Poi, Covacich ha voluto mettere in sequenza i due reportage giornalistici “Sotto il cielo di Russia” e “Primavera a Manhattan”, che raccontano la demonizzata Unione Sovietica e la glorificata America con un piglio del tutto originale e controcorrente.
A chiudere il volume il bellissimo, e ormai introvabile, carteggio tra “Il vecchio e il giovane”, cioè Saba e lo stesso Quarantotti Gambini. Un dialogo intenso, condito da simpatia e ammirazione reciproca. Raccontava Pier Antonio: «Prima ancora che gli avessi fatto leggere nulla di mio, mi diceva: Ho l’impressione che tu sia uno scrittore, anzi sento che sei uno scrittore. E in queste cose non mi sbaglio. Scrivi, e poi fammi vedere». Non poteva mancare, ovviamente, “Quarantotti Gambini, un italiano sbagliato”, l’intervista che Gian Antonio Cibotto pubblicò sulla “Fiera Letteraria” il 15 novembre del 1964.
E proprio da queste pagine parte Mauro Covacich per mettere a fuoco meglio lo scrittore passato come una meteora luminosissima (basterebbe ricordare il Premio Bagutta assegnato all’«Onda», oppure anche i due film tratti dai suoi romanzi), ma troppo fugace, nel ’900 letterario italiano. Per dire che, tutto sommato, Quarantotti Gambini non era solo un italiano irregolare, ma anche un triestino molto lontano dal «canone sveviano». Perché se nella letteratura giuliana, fino a quel momento, avevano prevalso la nevrosi, l’ironica inettitudine di Svevo, il grigio interiore di una generazione che si era abbeverata in maniera approssimativa alla fonte della psicoanalisi, con l’autore della “Rosa rossa” entrava tra le pagine, come un colpo di cannone, l’azzurro del mare, le gambe abbronzate della Lidia dell’«Onda», i turbamenti carnali.
Se in Svevo, scrive Covacich, ma anche in Giotti, Saba e Stuparich, si rifletteva l’ombra di una Trieste intellettuale e ancora asburgica, affetta da una persistente, soffusa nevrastenia, con Quarantotti Gambini si può scoprire una città levantina, marinara, «scenograficamente più vicina a “Ferito a morte” di Raffaele La Capria che alla “Coscienza di Zeno”». Un microcosmo più attento alle storie delle persone “normali” che a quelle dei personaggi.
Rileggendo le opere di Quarantotti Gambini sale forte la nostalgia per una scrittura solida, fitta di immagini e luoghi, partecipe del destino degli uomini, raffinata eppure intrisa di una sua sanguigna popolarità. Per un modo di stare dentro la letteratura al tempo stesso ispirato e appartato. Per il coraggio di non rinunciare mai a essere se stessi.
Non c’è dubbio: l’Italia ha dimenticato Quarantotti Gambini troppo in fretta.
alemezlo
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo