Quarant’anni fa la morte del Maresciallo Tito. Belgrado e l’addio al lider maximo e un’epoca
Alla sua morte, sopraggiunta dopo una lunghissima quanto penosa agonia il 4 maggio del 1980, si moltiplicavano da tempo i segnali che una stagione stesse volgendo al tramonto. E di quella stagione, del dopoguerra forgiato dalla vittoria sul nazifascismo nel 1945, Tito era stato uno dei protagonisti indiscussi. Non a caso per i suoi funerali si radunò a Belgrado una folla inusitata di leader politici e capi di Stato, che, a riguardarli oggi, sembrano essersi dati appuntamento per congedarsi da un’epoca in modo solenne. La globalizzazione premeva alle loro porte, annunciata dalla rivoluzione informatica e dall’affacciarsi della Cina sul mercato mondiale. L’Urss in Afghanistan era incappata nel suo Vietnam, allargando in maniera irrimediabile le crepe già profonde dell’edificio sovietico. La Federazione jugoslava, della quale Tito dal 1974 rivestiva la carica di presidente a vita, era minata dalle tensioni nazionalistiche che l’avrebbero precipitata di lì a un decennio nel baratro della guerra.
Nato suddito asburgico nel 1892 da padre croato e madre slovena a Kumrovec, sulla frontiera tra il regno di Croazia e il principato di Stiria, sopravvissuto alla Grande Guerra nella Galizia ucraina e convertitosi al bolscevismo, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso Josip Broz si mise in luce quale carismatico agitatore nei sindacati di Zagabria e ambizioso funzionario del Komintern a Mosca. Entrato nelle grazie di Stalin, adottò con convinzione le logiche e le pratiche dello stalinismo prima per farsi largo nelle faide del Partito comunista jugoslavo e diventarne il segretario; poi per conquistare l’egemonia della resistenza e liberare la Jugoslavia dall’occupazione dell’Asse sostanzialmente in autonomia, nonché come alleato riconosciuto della coalizione anti-hitleriana; infine per gettare le fondamenta del nuovo Stato comunista a livello ideologico, politico e sociale.
Su tutto il territorio liberato, Venezia Giulia compresa, la dinamica rivoluzionaria innescò anche i massacri indiscriminati di collaborazionisti e “nemici del popolo”, reali o sospetti. Stalin assisteva agli sviluppi jugoslavi con un misto di ammirazione e d’inquietudine. Il fatto che Tito lo avesse avvertito che non aveva alcuna intenzione di fermarsi a metà strada poteva incrinare i rapporti con gli angloamericani, e dunque la cornice di sicurezza entro cui l’Urss doveva procedere nella ricostruzione. Ma ciò che soprattutto allarmava il “maestro” era l’avventata condotta dell’“allievo” in politica estera: il terreno sul quale dalla crisi di Trieste e dalla guerra civile greca le divergenze non avevano fatto che aumentare, fino alla clamorosa rottura consumatasi tra i due nel 1948.
Sulle prime la “scomunica” diede luogo alla repressione dei cosiddetti “cominformisti” fedeli a Mosca, molti dei quali imprigionati nel terrificante lager dell’Isola Calva. Tuttavia è a partire da qui che la Jugoslavia imboccò il sentiero di una revisione ideologica che l’avrebbe accompagnata alla ricerca di un comunismo diverso, meno oppressivo di quello staliniano. Dalla metà degli anni Cinquanta, il tasso di violenza politica che aveva contraddistinto la nascita del regime andò attenuandosi. Si aprì allora la fase che più contribuì a costruire il mito di Tito in patria e all’estero. Abile a destreggiarsi in posizione equidistante tra i blocchi, dalla prima conferenza dei Paesi non allineati del 1955 Belgrado assunse un ruolo di faro per i popoli del Terzo mondo oppressi dalle superpotenze o comunque soffocati dal bipolarismo della Guerra fredda. Al contempo, il modello dell’autogestione socialista ideato dagli jugoslavi costituì una sponda per tutti quei partiti comunisti, a cominciare dal Pci, interessati a un riequilibrio policentrico dei rapporti di forza nei confronti dell’Urss.
Nonostante le ferite della guerra e dell’immediato opoguerra, anche le relazioni con il Vaticano e l’Italia migliorarono gradualmente nel riconoscimento di una reciproca convenienza diplomatica e commerciale.
Sul piano interno, il ricordo delle stragi e delle durezze del post-Liberazione fu tacitato davanti ai progressi nella qualità della vita, ottenuti assai più grazie alle periodiche iniezioni dei prestiti internazionali che ai controversi esperimenti dell’autogestione. Nell’opinione prevalente tra i “suoi” popoli, Tito rimase il grande condottiero che dopo aver resistito a Hitler e Mussolini aveva osato ribellarsi anche a Stalin, senza tuttavia svendersi all’imperialismo occidentale; per questo gli si perdonavano anche i risaputi eccessi di uno stile di vita sfarzoso, poco in linea con i rigori socialisti.
Negli anni ’60 e ’70 il prestigio goduto all’estero, le frontiere aperte alle persone e alle idee, il relativo benessere apparvero ai più un’accettabile contropartita per le limitazioni alle libertà politiche e civili, allentate ma mai rimosse del tutto dal sistema monopartitico. E in definitiva, proprio il mancato approdo al pluralismo, di fatto il fallimento dell’utopia identificata in un socialismo autogestito “dal volto umano”, impedì alla Jugoslavia di sviluppare gli anticorpi che l’avrebbero forse preservata dalla scomparsa del suo Maresciallo. —
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