Quando Ungaretti tradusse William Blake il poeta dell’ingiustizia e degli ideali perduti

la ricorrenza
Cristina Benussi
Per il cinquantesimo anniversario della morte di Giuseppe Ungaretti (Alessandria d'Egitto, 8 febbraio 1888 – Milano, 1 giugno 1970) l’editrice Mondadori, nella collana dello Specchio, ha ora ristampato, con testo inglese a fronte, “Visioni” di William Blake (pagg.448, euro 22) nella traduzione di Ungaretti, artista a lui assolutamente congeniale, tanto da averlo tradotto per “più di sette lustri” come scrive nel “Discorsetto del traduttore” del 1965. Pur così distanti nel tempo, i due poeti assegnavano infatti alla "parola" un valore conoscitivo capace di ridare all'umanità il senso d'appartenenza a un mondo più ampio e libero rispetto a quello in cui vivevano. Deploravano le parcellizzazioni indotte dalla logica di potere che aveva diviso il mondo in tante nazioni, fedi religiose, condizioni sociali, sostenute da un'etica improntata sugli egoismi e le volontà di sopraffazione reciproca. Il poeta inglese aveva visto con preoccupazione l'aprirsi dell'era industriale che chiedeva l'esercizio di una ragione custode degli interessi della casta che l'avviava. Era convinto che un nuovo ordine sarebbe potuto sorgere da sconvolgimenti epocali, e perciò guardava con favore sia alla rivoluzione francese che a quella americana. I suoi Canti dell'Innocenza rappresentavano uno stato ideale arcaico, non ancora corrotto dall'avidità di pochi, immagine di un paradiso perduto. I Canti dell'Esperienza mostravano, al contrario, quanto la realtà fosse stata pervasa dal male e dall'ingiustizia quotidiana. Alla fine del Settecento, attraverso la contrapposizione dei due simboli classici, rispettivamente l'agnello e la tigre, Blake creava dunque spazi mentali da cui far emergere bagliori di quel passato edenico, che si presentava mediante allegorie e immagini primigenie. Era dunque grazie a rappresentazioni istintuali che antiche entità e ideali perduti venivano rinvenuti dal poeta, capace di dar forma a quell'immaginazione che le teorie scientifiche del tempo consideravano mera attività involontaria, dunque priva di senso.
Ungaretti era nato più di un secolo e mezzo dopo, ad Alessandria d'Egitto, situata in prossimità del deserto, ovvero di un luogo "vuoto", che tuttavia poteva improvvisamente riempirsi di immagini abbaglianti: i miraggi. Era stato poi a Parigi, dove aveva acquisito l'idea che la poesia dovesse usare un linguaggio in grado di mostrare la faziosità della "ragione" produttiva, per cogliere altre possibili relazioni tra individui e natura, ed immaginare un mondo retto da legami diversi. Nel 1915 si trovò in trincea sul Carso, dove su pezzetti di carta appuntava parole, sciolte da punteggiatura, incastonate in pause e spazi bianchi che simulavano il vuoto e il silenzio del suo deserto archetipico: come miraggi, esse erano così in grado di esprimere tutta la potenza del loro significato allusivo. Il porto sepolto, come quello dell'antica Alessandria, era il titolo di quella prima raccolta consegnata nel 1916 all'editore Serra, suo commilitone. Era un'allegoria visionaria che non voleva dire nulla di empiricamente definito, ma che diceva tanto di ciò che era andato perduto tra le macerie della guerra: la memoria di una cultura che un tempo metteva l'uomo al centro dell'universo; il tempo autentico, capace di racchiudere in sé tutti i momenti dell'eternità in un presente diverso da quello cronologico, spezzato e regolato da convenzioni. La parola poetica poteva perciò illuminare frammenti di coscienza e portarli alla luce, per opporre al catastrofico presente una visione che poteva mostrare altri percorsi possibili. Ungaretti proseguiva poi il suo viaggio nella memoria con Sentimento del tempo (1933), raccolta in cui questi suoi slanci ideali ed utopici si specchiavano nella contemplazione del mistero, anche religioso, e nel saper percepire proprio quel fluire d'echi d'ante vitam che interessavano Blake. Centrale, in questo “riconoscimento” è senz’altro l’utopia paradossale di un possibile recupero, per il poeta, dell’unità originaria, meta perduta dallo spirito umano caduto in frantumi, esule per vanità, scivolato nelle catene e nel tormento delle infinite fattezze temporali. Ungaretti, oltre all'analogia barocca e ai modi di una confessione di sapore petrarchesco, si accingeva così a recuperare proprio l'apparato simbolico di Blake, frutto di un'anticonvenzionale ispirazione interiore. Il processo di ricreazione, sottolineato dall'uso di una metrica classica, investiva l'io poetante stesso quale parte di un ordito che tutto comprendeva, al pari di ogni altro elemento naturale, in un percorso ascensionale che rinviava alla presenza divina nel mondo, percepita, come per Blake, attraverso la visione: questa diventava per l'appunto conoscenza immaginativa di un reale visto come connubio di tutte le cose in una unità superiore. Va da sé che con il poeta inglese la corrispondenza era implicita fin dall'inizio: «Vedere il mondo in un granello di sabbia,/ e il paradiso in un fiore selvatico,/ tenere l'infinito nel palmo della mano,/ e l'eternità in un'ora» recitava Blake nell'Innocenza. Così, pur senza ancora averlo tradotto, Ungaretti gli aveva fatto eco già nel 1917 con una delle "visioni" più celebri della poesia del Novecento: «M'illumino d'immenso». —
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