Quando la moglie tedesca di Tito venne fucilata come spia in Urss
«Nella moschea ci sono stato, ma non mi sono mai genuflesso». Il maresciallo Tito amava ripetere questo detto popolare, che sintetizzava bene sia il suo carattere di uomo, combattente e leader, sia l’anima politica della sua creatura, la Repubblica federativa di Jugoslavia, primo fra i Paesi non allineati e destinato a «crollare come un castello di carte» pochi anni dopo la sua morte, trentacinque anni fa. Un tempo sufficiente, oggi, per rielaborare, rileggere e studiare più a fondo la figura di Josip Broz Tito, dittatore anomalo, promotore di un «socialismo “autogestito” dal volto umano» e di mercato, autocrate in uno Stato dove «l’opposizione di ogni tipo era proibita, ma la vita intellettuale e letteraria non erano soggette a censura preventiva e, cosa ancora più importate, le frontiere erano davvero aperte non solo al passaggio delle persone, ma anche a quello delle idee». Parole dello storico triestino Jo. že Pirjevec, autore di una nuova, ampia, biografia dedicata al maresciallo: “Tito e i suoi compagni” (pagg. 620, Euro 42,00, traduzione dell’autore), in questi giorni in libreria pubblicata da Einaudi.
Analizzando documenti d’archivio e consultando una sterminata bibliografia, Pirjevec mette a fuoco un ritratto a tutto tondo di Tito, da quando cominciò a far parlare di sé, nel 1928, durante il processo a Zagabria che gli costò una pesante pena detentiva in quanto comunista - mentre i cronisti ne registravano lo sguardo, «gli occhi azzurri glaciali ma buoni» - fino alla sua morte, a 88 anni, quando nella vita privata «si trovò al momento del tramonto senza moglie e senza conpagni».
Nel suo saggio Pirjevec non si limita a focalizzare l’attenzione sulla figura di Tito, ma amplia lo sguardo a comprendere quanti lo affiancarono prima nella lotta partigiana poi - nel bene e nel male - nell’avventura di costruire un Paese dal nulla. A cominciare da Edvard Kardelj e Aleksandar Rankovic, detto Leka, il capo dell'Ozna, fino a “Jovanka e le altre”, le donne, «tutte belle e piacevoli, ma anche piuttosto aggressive». Qualcuna dal destino tragico, come Elsa Johanna König, una tedesca che Tito sposò in Unione Sovietica nel 1936, e che l’anno dopo venne fucilata su sentenza del Commissariato del popolo per gli affari interni come sospetta spia della Gestapo, creando non pochi imbarazzi al futuro maresciallo.
Ma al di là dei numerosi aneddoti, il perno intorno al quale ruota tutta la narrazione di Pirjevec resta il rapporto fra Tito e Stalin. Un rapporto sempre ambiguo, teso, anche a livello personale, e che la “questione di Trieste” non fece altro che inasprire fino alla rottura, con tutte le conseguenze che si sarebbero riverberate a lungo sui due Paesi. Del resto, nota Pirjevec, «negli anni postbellici Tito e i suoi basarono la propria politica sulla convinzione che l’Unione Sovietica sarebbe stata tanto più forte, quanto più forte fosse stata la Jugoslavia». E oggi, cosa resta di Tito? «Nonostante trentacinque anni di dittatura - nota Pirjevec -, sarebbe ingiusto concludere la sua storia con l’affermazione che Josip Broz sia stato un tiranno» alla stregua di Stalin: «al contrario, proprio perché si era ribellato al terrore staliniano (...) Tito è rimasto nella memoria di molti suoi “sudditi” come un uomo al quale essere grati», riuscendo anche a sottrarsi «al canto delle sirene dell’Occidente». Certo, il suo regime fallì, «incapace di conservarsi senza la sua forza di coesione», minato anche da tutta una serie di tensioni e contraddizioni interne, compresi il terrorismo ustascia e la questione dei fuoriusciti cominformisti. E, certo, Tito alla fine non riuscì a «sviluppare l’esperimento dell’autogestione in una democrazia moderna e pluralista». Tuttavia oggi possiamo forse guardare a Tito più come a un ribelle che a un despota, ed questo che il poderoso lavoro di Pirjevec invita a fare.
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