Quando Herbert von Karajan si rifugiò a Trieste per sfuggire all’epurazione

Trent’anni fa la morte di uno dei più grandi direttori d’orchestra di tutti tempi. L’amicizia con de Banfield



Se ne stava a Trieste in condizioni economiche assai precarie, lui che avrebbe lasciato un patrimonio di qualche centinaio di miliardi di lire. Illustre sbandato all’indomani del crollo del Terzo Reich, Herbert von Karajan si era rifugiato nel capoluogo giuliano con la seconda moglie Anna Maria Sauest, braccato dal processo in atto di de-nazificazione, lui che aveva aderito al partito nazista. Qui entrò in contatto dalla contessa Maria Tripcovich che, per prima cosa, volle cercargli un alloggio: fu così che un dirigente della Società di Navigazione ospitò il “maestrissimo” in un appartamento di piazza Venezia. Ma, soprattutto, la contessa parlò con l’allora sovrintendente del teatro, Cesare Barison, per dare a Karajan la possibilità di guadagnare e quindi di esibirsi al Teatro Verdi, dove, in tre appuntamenti, interpretò Haydn, Richard Strauss, Beethoven, Ciaikovskij, Sibelius, Wagner, Brahms.

Trieste era all’epoca controllata dal Governo Militare Alleato e creare una qualsiasi opportunità a chiunque fosse sospettato di collaborazioni con il regime nazista non era certo un’impresa semplice. Ma a Trieste von Karajan riuscì a trovare rifugio eassistenza, e il cuo ritorno in città molti anni dopo, nel settembre 1971 per aprire con due serate, a capo dei suoi Berliner Philharmoniker, la 40. ma stagione della Società dei Concerti, va letto come un segno di riconoscenza e di gratitudine nei confronti della città che gli aveva permesso di rinascere. Peraltro, la sua amicizia con il compositore e storico direttore artistico del Verdi Raffaello de Banfield (figlio di Maria Tripcovich) fu lunga e intensa, come testimoniano le frequentazioni tra i due e le numerose interviste a “Falello” tra cui quella contenuta in un libro di Liliana Ulessi “Raffaello de Banfield. La musica e il teatro: una luce nella mia vita” (Edizioni Ibiskos).

Di Karajan, in questi giorni, cadono i trent’anni dalla morte. Era il 16 luglio 1989 quando un arresto cardiaco nella sua casa di Anif, a pochi chilometri da Salisburgo, dov’era nato nel 1908, decretava la scomparsa di uno dei più grandi direttori d’orchestra di sempre. Aveva 81 anni e, nonostante da tempo la sua salute non fosse più delle migliori a causa di atroci dolori alla schiena che lo obbligavano a raggiungere il podio a fatica, continuava freneticamente a spostarsi da un palco all’altro e pensava a importanti progetti, manifestando una incrollabile passione per la vita. In quel periodo, con Placido Domingo nel ruolo del protagonista, stava lavorando a una nuova produzione del “Ballo in maschera”, in programma di lì a pochi giorni nel festival della città di Amadeus e sua. A dirigere il capolavoro di Verdi ci pensò Sir Georg Solti, mentre in Duomo Riccardo Muti, che, scelto da Karajan, aveva debuttato a Salisburgo nel’71 con il “Don Pasquale”, venne invitato a eseguire, il 23 luglio, il Requiem di Mozart in omaggio all’illustre collega. Cominciavano così a spegnersi le luci su colui che, per quasi mezzo secolo, era stato un Re Sole e un Re Mida della grande musica.

Eppure, a trent’anni dalla morte le luci su Karajan non si sono ancora spente del tutto: la Deutsche Grammophon, di cui è stato a lungo l’artista di punta, ha appena pubblicato due cofanetti con le rimasterizzazioni, partendo da nastri analogici digitali, delle integrali delle Sinfonie di Ciaikovskij e Bruckner da lui dirette; per settembre, invece, è prevista per Decca l’uscita di un box di 34 Cd con tutte le registrazioni effettuate per la casa discografica; e, naturalmente, Karajan non poteva non venir ricordato dalla sua Salisburgo, con Riccardo Muti che al Grosses Festspielhaus, nell’ambito del festival che comincia sabato 20 luglio per andare avanti tutto il mese prossimo, sarà a capo dei Wiener Philharmoniker e del Coro dell’Opera di Stato di Vienna per dedicargli il Requiem di Verdi il 13, 15 e 17 agosto: tre appuntamenti ormai da tutto esaurito. Muti, tra l’altro, diresse il Requiem di Verdi al festival della città austriaca anche a fine agosto dell’89 con i Berliner Philharmoniker che, dal’55 fino alle sue dimissioni nell’aprile di quell’anno per divergenze insanabili, furono l’orchestra di Karajan, la migliore al mondo. E fu proprio Karajan, in seguito alle sue dimissioni, a scegliere Muti per quel Requiem. Quest’anno, invece, proprio nel 30.mo della morte del maestro, quale direttore stabile dei Berliner debutta Kirill Petrenko che inizia la nuova avventura il mese prossimo dalla capitale tedesca per approdare poi in una piccola tournée ai festival di Salisburgo e di Lucerna. Saprà Petrenko, quarantasettenne siberiano di religione ebraica e passaporto austriaco, rinnovare i fasti di Karajan? Petrenko ha, per ora, fornito prove eccezionali. Quelle di Karajan rimangono incastonate nella storia della grande musica. Nell’altissimo numero di registrazioni, nel commosso ricordo che si deve tributare a un artista sommo, risiede, più che in quello lasciato alla terza moglie, la modella francese Eliette, di trentun anni più giovane, e alle loro due figlie, Isabel e Arabel, il suo patrimonio immenso. —

Riproduzione riservata © Il Piccolo