Quando digiunare era una pratica di santità i gesuiti sgarravano con ghiottonerie e tabacco
TRIESTE Una volta si digiunava per arrivare a Dio, adesso si digiuna per superare la prova costume. Prima di sollevare alti lai contro un abominevole contemporaneo fasciato di esteriorità, bisognerebbe capire quale dei due obiettivi sia più alla portata. E forse avremmo delle sorprese. Dopotutto un dio tascabile lo si trova facilmente oggigiorno, lo si vede nel fiorire di religioni patchwork, che mettono assieme elementi di svariate tradizioni religiose e movimenti esoterici e spirituali per creare una propria fede individuale.
La perdita dei chili di troppo è invece, sottoposti come siamo a un fuoco di fila di proposte culinarie, cuochi d’assalto (anche volgarmente incazzosi) e ricette che col proposito di tornare all’eden perduto dei sughi della nonna innalzano pericolosamente i livelli di colesterolo, un cimento non da poco. Forse per questo sono nati nella vicina Austria degli spiritual jogging in monastero, in cui all’insegna di ‘Gesù come primo allenatore’ (non è uno scherzo) si fa leva sulle regole della penitenza per smaltire il superfluo. Ma così facendo il digiuno si trasforma in una forma di consumo, nella quale il penitente si converte in cliente e paga per non mangiare, non bere e costringersi alle astinenze dalle altre e varie pratiche più dilettevoli. Niente di più lontano da privazione e rinuncia che sono sempre state in connessione con la spiritualità cristiana, fino a rappresentarne una delle prassi del comportamento religioso e il cui significato si rinnova in questi giorni di quaresima. Che digiuno e astinenza siano “atti sociali utili e necessari a rafforzare l’identità stessa della comunità cristiana-cattolica” lo ribadiva anche una nota pastorale della Comunità episcopale italiana del 1994.
Al legame tra digiuno e cristianesimo lo storico di Sagrado Claudio Ferlan dedica il saggio “Venerdì pesce” (il Mulino, 192 pagg., 15 euro), in cui l’autore risale alle radici di una storia millenaria, a secoli in cui la fame era davvero tremenda, atavica, e non “voglia di qualcosa di buono”. In quel tempo chi fingeva di ignorare i bisogni delle viscere suscitava ondate d’ammirato interesse. Tommaso d’Aquino diceva che la privazione purga la mente, conforta i sensi, sottomette la carne allo spirito, rende il cuore contrito e umiliato, disperde le nebbie della lussuria, spegne gli ardori della libido e accende la vera luce della castità. Sant’Ambrogio compose un accorato elogio del digiuno, richiamando diffusamente i passi del Vecchio Testamento che vi fanno riferimento e lo riconoscono come sostanza e immagine del cielo, nutrimento dell’anima, cibo spirituale, morte del peccato, fondamento della castità, via privilegiata a Dio.
Ferlan, che è ricercatore all’Istituto storico italo-germanico della Fondazione Bruno Kessler di Trento, ed è giunto a occuparsi del digiuno dopo aver indagato l’ubriachezza in ‘Sbornie sacre, sbornie profane’ (il Mulino, 2018) - esito quasi naturale di un percorso di purificazione - ordina i capitoli del libro in un gustoso (è il caso di dirlo) sommario che va dall’antipasto al pospasto, passando per minestra e porzione; una scansione ripresa dalle mense dei Gesuiti, perché leccornie e ghiottonerie si sono ritagliate nei secoli posti anche da protagonisti sulle mense dei giorni considerati di astinenza o digiuno.
Anche in quaresima non tutti erano asceti, e la lotta tra la fede e la gola aveva un esito più che incerto.
Ferlan ci fa sapere che caffè, cioccolato e tabacco erano ‘vizi’ molto praticati tra i gesuiti, mentre nei primi decenni del Settecento papa Benedetto XIII vietava a osti e tavernieri di servire, somministrare e cuocere cibi proibiti nei loro locali. Non si sa se vigeva anche allora la possibilità dell’asporto.
Ma il significato da attribuire all’astinenza è mutato nel corso dei secoli. La sobrietà oggi non si declina solo a tavola, dove anzi la continenza è praticata anche in nome di un salutismo privo di spiritualità. Così la prassi penitenziale si arricchisce di nuovi capitoli: un paio d’anni fa l’arcivescovo di Bologna aveva invitato alcuni preti a una quaresima digitale. Quaranta giorni lontano da internet, instagram e twitter. Ecco la nuova e ardua penitenza degna degli antichi padri della Chiesa. —
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