Pupi Avati: “C’è una mia Trieste che è luogo perfetto per le storie oscure”

Il regista debutta come narratore con il romanzo “Il ragazzo in soffitta” pubblicato da Guanda
Pupi Avati
Pupi Avati

Pupi Avati è sempre stato così. In bilico tra Dancing Paradise e le ombre inquiete dell’Emilia Romagna. Legato a un cinema che ha il sole negli occhi e, al tempo stesso, misteriosamente attratto dalle favole nere. Dalle storie inquiete che aprono spiragli sulla stanza segreta dove sono nascosti i misteri, i sogni più bui, quello che non si può dire della realtà. E non stupisce trovarlo adesso, a 76 anni, al debutto come narratore con un romanzo bellissimo che galleggia al confine tra la luce e l’oscurità.

A scrivere un libro, per essere precisi, Pupi Avati ci aveva già provato due anni fa. Ma “La grande invenzione”, pubblicata da Rizzoli nel 2013, era pur sempre un’autobiografia. Adesso, invece, il regista di tanti bei film (“Una gita scolastica”, “Regalo di Natale”, “Ma quando arrivano le ragazze?”, “I cavalieri che fecero l’impresa” “Il papà di Giovanna”, “Una sconfinata giovinezza”), di felici miniserie per la tivù (una su tutte? “Jazz band”), esploratore di una via al fantastico totalmente italiana (“La casa dalle finestre che ridono”, “Zeder”, “L’arcano incantatore”), ha tirato fuori dal cappello magico un romanzo dal fascino immediato.

Ambientato tra Bologna e Trieste, costruito su due storie parallele, due destini che corrono su binari che, solo in apparenza, non si incontreranno mai, “Il ragazzo in soffitta (Guanda, pagg. 249, euro 16), è un romanzo di formazione. La storia di un’amicizia tra adolescenti, il brillante Dedo e l’impacciato Giulio, sulla quale si allunga all’improvviso l’ombra di un assassino. Un papà che, molti anni addietro, si è macchiato del delitto di due ragazzine. E che adesso ritorna in scena, ingombrante come un macigno. Anche perché la società lo ha già condannato, esorcizzato, espulso dalla collettività, prima ancora di sapere come sono andate per davvero le cose.

Il “Ragazzo in soffitta” verrà presentato l’8 maggio al Cinema Ariston di Trieste. Il regista dialogherà con il critico Lorenzo Codelli.

«Debutto come narratore a 76 anni. Ma, in realtà, io mi sono educato a scrivere facendo il cinema - dice Pupi Avati -. I miei sono film d’autore. Non esiste una bella pellicola con una brutta sceneggiatura, e viceversa. Quindi lavorando da tanti anni sul set mi sono abituato a curare molto anche la parte narrativa del mio lavoro».

Ma il cinema ha un altro linguaggio...

«Infatti i miei testi per il cinema, che sono anche stati pubblicati nel tempo, forse non stanno in piedi da soli. Hanno bisogno delle immagini, delle voci, dei suoni».

Però nella “Grande invenzione” ha dimostrato di saperci fare con le parole e le storie.

«Sì, ma quella era la mia autobiografia. Solo dopo mi è arrivata da Guanda l’idea di mettere mano a un romanzo. E io li ho ascoltati. Partendo, però, con un’altra idea in testa».

Quale?

«In principio volevo raccontare la storia dell’accordatore di Arturo Benedetti Michelangeli. Un signore che si chiamava Cesare Augusto Tallone. Figlio di Cesare, noto pittore dell’Ottocento, per 35 anni ha affiancato uno dei pianisti più idolatrati ed enigmatici del Novecento».

L’accordatore che racconta il musicista?

«Questa era l’idea di partenza. A Luigi Brioschi, direttore editoriale di Guanda, piaceva molto. Così ho passato un anno a fare ricerche, a intervistare, a inconttare tutti quelli che hanno conosciuto Benedetti Michelangeli o Tallone. Però mi sono trovato a scontrarmi con un muro».

Un muro di silenzio?

«Tutti si sono barricati in una reticenza estrema. Intendiamoci: sulla parte musicale, creativa, artistica, fiumi di parole. Sul lato umano, zero. Che dovevo fare, mettermi a inventare?».

Così ha cambiato strada.

«Da sempre mi piace frequentare i cosiddetti matti di paese. Io attiro loro e loro attirano me. Per questo, dopo più di 40 anni di cinema, nella mia agenda ci sono più numeri telefonici di persone disturbate mentalmente che di gente normale. In fondo chiedono solo di essere ascoltati».

È nato così lo spunto per “Il ragazzo in soffitta”?

«Sì, perché quando sento parlare di tanti gesti estremi finisco sempre per pensare: dietro queste persone c’è un bambino che giocava a pallone, un ragazzo che frequentava gli amici al bar, che corteggiava le ragazze in discoteca. Poi, all’improvviso, si trasforma in un mostro. Ma nessuno racconta il percorso da quell’infanzia normale fino al baratro della follia».

Trieste è lo scenario inquieto di una parte di questa storia: perché?

«Il contesto solido, familiare, rassicurante, non poteva che essere la mia Bologna. Per me la città più immaginaria che esista è Trieste. Un posto fuori sincrono, che galleggia in un tempo diverso. Al di là dei fusi orari. Quando parlo con il mio amico Claudio Magris, sento di chiacchierare con un uomo fuori dal tempo».

Un posto perfetto per le storie?

«Sì, per le storie più strane. Ci si sente legittimati a inventare storie anche inverosimili a Trieste. Infatti nel libro, i capitoli ambientati nella vostra città hanno un tono di voce diverso, una scrittura più letteraria, un lessico più sofisticato».

Che cosa la lega alla città?

«Tantissime cose. Tullio Kezich è stato il critico cinematografico che mi ha aiutato a capire che cosa stavo facendo come regista. Era l’unico che non dava voti ai film, e io l’ho sempre apprezzato molto».

E poi?

«L’amicizia con Magris. Che nasce, però, dalla sintonia con Marisa Madieri, sua moglie. Quando ho letto il suo “Verde acqua”, finalmente sono riuscito a capire qualcosa dei libri di Claudio. Che per me, fino a quel momento, erano avvolti nella nebbia. E poi, c’è qualcun’altro che è riuscito a stupirmi, a Trieste».

Chi sarebbe?

«I cinefili della Cappella Underground. Mi hanno stupito perché avevano nella loro cineteca perfino i miei primissimi lavori in videocassetta».

E Lelio Luttazzi?

«Gli ho dedicato un film, “L’ultima intervista”, che abbiamo girato a casa sua e nei luoghi triestini della giovinezza. E anche della vecchiaia, visto che è voluto ritornare a morire nella sua città».

E il personaggio misterioso che ha attraversato la letteratura italiana del ’900?

«Era Roberto Bazlen. Ho scoperto di recente che per un periodo ha vissuto in via del Babbuino, a Roma. Un personaggio misteriosissimo, un intellettuale che Trieste non dovrebbe dimenticare».

Non c’entra Franco Basaglia e la sua rivoluzione nei manicomi con il “Ragazzo”?

«No, non pensavo a Basaglia mentre scrivevo. L’ho fatto, invece, girando il film “Il papà di Giovanna” che racconta una storia di manicomio».

Un Pupi Avati in luce e ombra, in questo romanzo...

«Anche al cinema, di tanto in tanto, ho deragliato. Per ambientare nell’Emilia solare storie che allungano sul cinema ombre inquiete. Penso alla “Casa dalle finestre che ridono”, “Zeder”...».

Facile essere scrittori?

«Mi tremavano i polsi quando mi sono messo a scrivere. Però se uno non è presuntuoso a 76 anni, non rimane più molto tempo per esserlo. Del resto, il cinema è implacabile. Non esisterebbe un gigante come Proust senza la possibilità dell’approfondimento che concede la scrittura. Se io immagino, per un film, 250 cavalieri in una scena, mio fratello dice: scendi a 50, non so come farò a pagare tutta quella gente».

Legge perché?

«Quando so che, alla sera, mi aspetta un bel libro a casa, sono felice. Perché è come se dialogassi con un amico, a voce bassa. E so che lui, quella storia, la racconta solo a me».

Un cinema inconfondibile, il suo.

«Non sarà mai un cinema da adulto. Anche se guardando il mio fisico non sembra, io sono rimasto un ragazzo. E non ho intenzione di cambiare».

alemezlo

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