Promemoria in versi di Andrea Bajani
TRIESTE Che i poeti si diano alla narrativa non è poi così originale, che un poeta si tolga lo sfizio di un romanzo è piuttosto usuale, in genere per tornare poi a concentrarsi sulla misura del verso. A volte è un capriccio. Altre volte no. Ma quando è un narratore a pubblicare una silloge poetica, dopo un numero considerevole di romanzi, ci vuole più coraggio. Anche perché la nicchia della poesia è spietata, come scriveva Szymborska, a proposito dello snobismo della categoria: pensano che la poesia sia l’alfa e l’omega delle belle lettere.
C’è da dire che, così com’è difficile che un bravo poeta sortisca gli stessi effetti in narrativa, altrettanto arduo è che un buon romanziere produca dei dignitosi testi poetici. I primi in genere non hanno trama. E tra i secondi pochi hanno il senso della ricerca linguistica. Chi ha avuto questo coraggio è Andrea Bajani, con alle spalle nove romanzi e riconoscimenti come il Bagutta e il Mondello.
Per chi conosce l’opera di Bajani la novità non dovrebbe destare stupore. La raccolta in versi “Promemoria” infatti (Einaudi, pag. 66, euro 10,00), pare quasi un naturale prosieguo della sua prosa, un approdo obbligatorio. Certo siamo di fronte a un microtesto che si avvale di metrica e retorica, anzi, la sua affezione all’endecasillabo è piuttosto ostinata.
Ma non è la forma chiusa che fa di questo libro, un libro di poesia. Non è sufficiente, per una silloge poetica, andare a capo e seguire la metrica, tanto più oggi dove impera il verso libero, la prosa poetica e la forma chiusa rischia sovente di dare al testo un tono retrò. Ci vuole una ferita, per usare il titolo di un romanzo dell’autore, ci vuole “Un bene al mondo”, cioè un dolore. E non basta. Ci vuole il talento, di immagini e di ritmo, per fare in modo che quel “bene” diventi collettivo. Ci appartenga. “Promemoria” si dipana con una struttura poematica ed è perfettamente coerente con la poetica dell’autore: la fine, come gestirla, come trovare infine salvezza nella parola.
Dalla sua Bajani ha un’inclinazione naturale per gli ossimori e per le immagini fiabesche. Per cui ciò che a tratti può assumere il tono di una filastrocca inspiegabile, ci restituisce un senso di realissima evocazione, quasi scarna nei suoi elementi privi di metafora, “trattare la felicità/come un organo qualsiasi”, scrive. La metafora si alimenta nel macrotesto, nella struttura complessiva della silloge, mano a mano che si procede. E mano a mano si compie la destrutturazione.
Del vivere e del morire, dei luoghi comuni, degli stereotipi che vengono smantellati, tra tragico e comico, si giunge allo straniamento. Uno scarto di pensiero che ci restituisce la possibilità di aderire alla vita. Non a una sua copia. Insomma, poesia.
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