Ponte Curto è la realtà immaginaria sognata vicino alla casa di Joyce

Da Firenze ripensare con la nostalgia dei tempi del Covid a un non luogo dell’infanzia
Foto Bruni Trieste 05.09.16 Ponte Joice-illuminato rosa-fuxia
Foto Bruni Trieste 05.09.16 Ponte Joice-illuminato rosa-fuxia

TRIESTE. Da quando sono a Firenze e posso guardare i luoghi della mia città da un punto di osservazione d’eccezione come il Ponte Vecchio, vicino al quale ho abitato per un anno, guardando l’Arno solcato da barche di canottieri, o il Mugnone, canale lungo il quale passeggio ora, ripenso alle vie del centro triestino e a una piccola bitta dove da adolescente mi sistemavo appoggiando la schiena, leggendo un buon libro al sole. Era il mio posto preferito, quello che mi permetteva di stare vicino alla casa in cui dal 1904 abitava Joyce quando a Trieste insegnava inglese, con il Canal Grande davanti al portone. Non c’era ancora il passaggio Joyce che i triestini chiamano “Ponte Curto”, né sul marciapiede, la statua dello scrittore creata dalla capacità artistica di Nino Spagnoli.

Sognavo, allora, un luogo di passaggio che mi permettesse, la mattina, in caso di ritardo, di correre a scuola oltrepassando il canale, il ponte era un non luogo, una realtà immaginaria una costruzione che abbinavo nella mia fantasia alla bitta vicino all’abitazione storica di Joyce. Nel 2019, due giorni prima della mia partenza per Firenze, mi sono fatta fotografare li’da Massimo Goina per un testo che stavo scrivendo, acconciata da Dorina Forti con dei rasta di cartapesta raffiguranti parole crociate nel blu del cielo e fra le onde del mare, realizzate da Francesca Tonsi di CartastracciaLab.

Era un ritorno all’adolescenza, ai momenti in cui ragionavo sulla vita quotidiana dei grandi scrittori, su cui infondo si basano le loro opere, con aggiunto il piacere di trovare un ponte, una base su cui si può stare fermi come una statua a guardare l’orizzonte, o sul quale ti puoi girare e guardare controcorrente con le spalle al mare, avendo una visione a 360 gradi, come potrebbe fare un personaggio di Gente di Dublino, che seduto sulla cimasa di un ponte, guarda la luce del sole riflettersi senza potersi specchiare e vedere la sua immagine al naturale; un’immagine deviata dalle onde, dall’acqua mossa dal vento o da piccole barche di pescatori, sapendo, come diceva Paul Valery che “è buona cosa apparire brutti in uno specchio deformato” .

Mi sono anche seduta su una bitta lì vicino, con lo stesso spirito di adolescente, guardando le piccole barche azzurre di legno, vedendo le quali mi è venuto in mente un verso del mio prossimo libro per Campanotto Editore, Pierino Sapore, con illustrazioni del bravo Cecco Mariniello. Un libro che parla di luoghi di guerra, di bambini che scappano dalle bombe, di un web designer di nome Pierino che insegna ai bambini a disegnare per fare pubblicità progresso per la pace. Guardando le stesse barchette, ho pensato: “metto nell’acqua la mia barca/ del diluvio sembra l’arca/ tanti piccoli immigrati/ cercano cieli più stellati” .

Mi sono immaginata i bambini finalmente in salvo, ognuno con la sua barca, pronto a legare la propria zattera, la propria scialuppa, il proprio veliero di cartapesta su qualche bitta tra il canal grande e il molo audace, capace di guidare la propria vita in mezzo alle onde, tenendo stretto ognuno il proprio personale timone, prendendo la direzione giusta grazie alle proprie scelte e alla grande bussola che è la fantasia.

Magari, una volta a terra, con la prontezza di guardare l’orizzonte con il cannocchiale situato vicino al Miela e con cui, con una sola monetina, si può spaziare con lo sguardo. Anche io oltre che da adolescente anche da bambina, di domenica con un giornalino dei barbapapà preso in edicola, passeggiavo proprio lì vicino alla Chiesa di Sant’Antonio e a quella serbo– ortodossa di San Spiridione, passavo per via Genova, per via Dante, per via Cassa di risparmio, fermandomi in qualche bar come il Caffè Stella Polare, spostandomi negli stessi luoghi dove aveva passeggiato ad inizio Novecento, James Joyce; non avrei mai immaginato di leggere a quindici anni usando una bitta per poggia schiena, proprio quella su cui venivo messa in piedi per essere immortalata in alcune fotografie in bianco e nero destinata a qualche album di famiglia, con un berretto di lana con un pompon.

Ripensando a questi luoghi per me famigliari, per la prima volta con nostalgia, che è intervenuta lievemente al tempo del Covid, e che mi ha fatto scegliere la stanzialità in toscana. In Pierino Sapore, ho scritto interpretando la voce di un bimbo immaginario, proveniente dalla Turchia o dalla Siria, dei versi che volevano mimare la paura di chi non ha bitte su cui approdare: “il mio sorriso è il mio vero saluto/ sono conchiglia del mare imbuto/ per fare l’eco l’onda devo filtrare/ Sono piccola memoria del mare/ la guerra vorrei far spiaggiare” . È difficile tagliare i ponti con i luoghi interiorizzati e che, costruiti a Trieste vicino palazzi di valore storico, sono rintracciabili in qualsiasi realtà di mare, in cui scorre l’acqua che leviga, devasta o modella la dura pietra o il ferro o il bronzo a cui ci attracchiamo perché non sia cancellata la memoria storica, personale e collettiva. 

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