Pietro Marzotto il conte imprenditore che sapeva dire di no

Nei giorni scorsi è morto l'imprenditore Pietro Marzotto, aveva 80 anni. Marzotto si è spento all'ospedale della cittadina di Portogruaro, dove risiedeva da alcuni anni ed era stato ricoverato per...

Nei giorni scorsi è morto l'imprenditore Pietro Marzotto, aveva 80 anni. Marzotto si è spento all'ospedale della cittadina di Portogruaro, dove risiedeva da alcuni anni ed era stato ricoverato per complicazioni cardiache. Figlio del conte Gaetano Marzotto, ultimo di sette fratelli, aveva guidato il gruppo tessile di Valdagno per 16 anni e aveva ricoperto anche il ruolo di vicepresidente di Confindustria.

di MARIANO MAUGERI

Li chiamavano i "conti correnti". In Veneto e nei luoghi d'incontro della jeunesse dorée europea, Cortina d'Ampezzo in primis, i fratelli Marzotto - Vittorio Emanuele, Italia, Umberto, Giannino (che correva con una Ferrari 212 progettata unicamente per lui), Paola, Laura e Pietro, il conte Pietro - sfoggiavano quell'aura di chi appartiene a una grande famiglia di imprenditori e alla storia d'Italia. A modo loro, pure i Marzotto furono, come gli Agnelli, una famiglia regnante. Non solo e non tanto perché all'alba di tre secoli fa gettano le basi di quel modello manifatturiero che innerverà il tessuto industriale del Nord Italia, ma perché ognuno dei suoi rappresentanti è protagonista delle rivoluzioni economiche che segneranno la storia recente d'Italia. Pietro, senza togliere nulla a chi lo precedette, era di una pasta diversa. Un manager schivo e imprenditore visionario, un ircocervo che non aveva paura di mettere a nudo le frizioni che due ruoli così confliggenti sono in grado di generare. Quando il manager parlava senza peli sulla lingua all'imprenditore (e viceversa) erano guai. La politica economica, la sua autentica passione, la studiava senza sosta e la amava. Ma disprezzava i politici. E non perdeva occasione per ricordarlo. Ce lo disse sorseggiando un Chivas Regal mentre un Learjet decollato da Verona ci portava per un viaggio lampo a Brno, in Moravia, per inaugurare un'altra fabbrica di lana appena acquisita, la Nova Mosilana: «Le persone serie, in Italia, non possono far politica». Era la primavera del '98. Un anno prima si era consumato l'altro grande rifiuto: dopo lo scontro nel 1980 con Enrico Cuccia per il piano di risanamento di Snia Viscosa, di cui Marzotto era presidente esecutivo, era toccato a Maurizio Romiti, figlio di Cesare, intenzionato a fondere la sua Hdp con il gruppo Marzotto. Ci fu una trattativa serrata, il via libera si rimanda di giorno in giorno, si chiude, no salta tutto, fino a quando il conte Pietro ha un brutto presentimento confortato dai numeri e fa saltare la trattativa. Forse in cuor suo coltiva un pregiudizio nei confronti dei "figli di". È il niet che anticipa di qualche anno la decisione di abbandonare ogni incarico operativo. Una scelta incoraggiata carsicamente da molti esponenti della famiglia che si coalizzano contro di lui. «Ora andrò in giro a reclutare i clienti della Marzotto», scherza con i cronisti dopo una carriera lunga 26 anni.Questo carattere spigoloso, inframezzato da lampi di autoironia, in realtà mimetizzava una grande tenerezza che spesso lo spingeva a ingaggiare scontri epici con i giganti del capitalismo italiano. Aveva ragione Indro Montanelli: chi ha un carattere ha un cattivo carattere. Il suo capolavoro rimane la modernizzazione della Marzotto. Ci mette dieci anni a organizzare un modulo di gioco che farà della sua azienda una multinazionale capace di competere sui mercati mondiali: Bassetti, Linificio e capanificio nazionale, Guabello e Lanerossi le punte d'attacco. Per lui, dopo 80 anni e più di vittorie e sconfitte, vale la massima di Fernando Pessoa: siediti al sole, abdica e diventa il re di te stesso. Magari impugnando una bottiglia di champagne o di whisky. Anche questo, a suo modo, un atto di rivolta.

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