Pierluigi Cappello vola in America con un’antologia delle sue poesie
Un abbraccio intenso e commosso, in un teatro Verdi stracolmo. Sul palco l’amico poeta Gian Mario Villalta, e poi l’amica speciale, Susanna Tamaro, che gli ha dedicato l’ultimo libro e ne legge qualche passo. La regista Francesca Archibugi non ha potuto esserci, ma in un breve videomessaggio racconta di un rapporto nato nel modo più semplice, attraverso la scoperta dei suoi versi, e diventato poi complicità, confidenze al telefono, come con un compagno di liceo, conosciuto in tarda età.
Il festival Pordenonelegge si è aperto nel segno di una delle voci più alte della poesia contemporanea, Pierluigi Cappello, morto l’1 ottobre di un anno fa a cinquant’anni. Tutta la prima giornata è stata percorsa dal suo ricordo, che gli amici hanno voluto fortemente e che, al di là dell’ufficialità dell’inaugurazione, con autorità e discorsi, si è concretizzato nella pubblicazione della raccolta di tutte le poesie, fino all’ultima, datata Cassacco settembre 2017, quando ormai sentiva che “il sentiero si è fatto stretto, non più di uno per volta ci può passare”.
Pierluigi amava il volo. «E ora volerà in America», ha detto Federica Magro, direttore editoriale Bur, anticipando la vendita dei diritti alla casa editrice Spuyten Duyvil, che curerà un’antologia tradotta dall’italianista Tod Portnowitz. L’annuncio è stato fatto in mattinata, alla presentazione di “Un prato in pendio” (Bur Rizzoli), l’opera omnia poetica di Cappello, dal 1992 al 2017, che comprende otto inediti e alcuni testi che avrebbero dovuto trasformarsi nel suo secondo romanzo. Nel libro sono riprodotte, in fotografia, anche pagine dell’ultimo quadernino, con le poche correzioni, sempre a matita. La matita a cui aveva dedicato un “elogio”, l’unico strumento che gli permetteva di scrivere disteso, con lentezza, tornando indietro con la gomma. La raccolta «è nata da sola, come un figlio che aveva bisogno di venire alla luce», ha detto Magro. Villalta ha curato l’introduzione ai versi in friulano, il latinista e traduttore Alessandro Fo quella per l’italiano, mentre la parte in prosa è affidata all’interpretazione di Eraldo Affinati.
Spontaneamente, dopo la morte del poeta, si è creato un gruppo di amici, una sorta di “comitato”, che ha proseguito il dialogo con la casa editrice per pubblicare gli inediti accanto ai lavori precedenti. «Sono testi stupendi – ha aggiunto Magro – che danno conto della maturità raggiunta». E, sebbene le due produzioni, in italiano e friulano, siano nel libro mantenute distinte, tutti i relatori hanno sottolineato l’impossibilità di separare i due universi, connessi attraverso parole e temi semplicissimi e cari – neve, silenzio, pietra, bambini, natura – che, raccontando il Friuli, toccano temi universali e calano la poesia dentro la storia.
Con Fo, la conoscenza avvenne grazie a un poeta tardo antico, Rutilio Namaziano, che entrambi amavano. «Ci incontrammo a una mia conferenza e iniziò una bella amicizia – ha detto il docente -. Nella mia introduzione ho quindi cercato di coniugare l’aspetto confidenziale a quello scientifico, mettendo anche in rilievo le risultanze oggettive della sua poesia». Una poesia che non ostenta, procede per sottrazione, va al cuore delle cose e arriva a tutti, pur nascondendo una sensibilità complessa e un impianto profondo. «Testi - ha precisato Fo - che perfino nella condizione finale di estrema sofferenza, si concentrano sul momento di felicità contingente e guardano con serenità allo “scollinamento”».
Villalta, infine, ha raccontato l’amico, l’uomo, il poeta, sempre preoccupato che il suo lavoro venisse letto alla luce dell’eccezionalità della sua condizione fisica. Di quella disabilità che, per un incidente di moto, dai sedici anni lo confinava su una sedia a rotelle. «C’è un prima e un dopo, ma questo passaggio fa parte della sua intera vita. Fino agli ultimi testi, che esprimono la lucidità di chi sta sul limite».
E di poesia si è parlato anche nell’incontro che ha aperto il festival, con il grecista Giulio Guidorizzi e il suo “Ulisse. Il romanzo del ritorno” (Einaudi), in cui l’eroe è visto attraverso gli occhi delle donne che lo hanno amato. Circe, Calipso e una Penelope contemporanea e inquieta, lontanissima dal ritratto della semivedova depressa, in attesa al telaio. Una Penelope che tesse non per ingannare il tempo, ma per trasferire sulla tela sogni e visioni. «Perchè anche aspettare - dice Guidorizzi - può essere una passione». Ma ha senso oggi ritradurre i classici, con tanti illustri precedenti con cui confrontarsi? «Non solo ha senso - ha risposto il filologo, ora al lavoro sull’Iliade - ma fa bene a noi traduttori, per trovare una nostra cifra con sguardo libero, e ai lettori, che si confrontano con una prospettiva linguistica diversa. Il traduttore è parte del testo stesso e il tramite attraverso cui una lingua arriva a chi non la conosce. E lo conquista, parlandogli con i codici del suo tempo».
Come la lingua della poesia. E così il cerchio della prima giornata si chiude. —
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