Pierluigi Cappello addio al poeta ingordo di vita

È morto all’età di 50 anni l’autore friulano vincitore dei premi Bagutta e Viareggio
«Intorno ai poeti l’aria trema, vibra», lo diceva spesso Pierluigi Cappello. E l’aria vibrava sempre intorno a lui perché Cappello era il tipico autore dal profilo completo, di quelli per cui arte e vita erano proprio la stessa cosa. Chi l’ha conosciuto poteva apprezzarne la competenza, una cultura verticale a iniziare da quell’amore per Dante che ha diffuso capillarmente per le piazze friulane. Era uno schietto Pierluigi, non risparmiava niente e a nessuno, in fondo è stato anche il motivo per cui si era allontanato dagli studi accademici, lì dove di poesia ne circolava poca. E non risparmiava neppure se stesso, spinto da quel trasporto che si traduceva in generosità, nel darsi totalmente alle lettere. Era un passionale, questo è certo, soprattutto non sopportava l’idea di crederlo un poeta per le grandi sofferenze patite a causa del suo incidente, a 16 anni: «Sarei diventato un poeta comunque, forse migliore», ripeteva spesso. Pier era innamorato delle parole fin da bambino, ne era già stato catturato dalle prime letture, quei segni neri tra i bianco che da adulto avrebbe definito: “il silenzio: lo spazio bianco dove si infilano i versi”. Se proprio si vuole trovare una relazione tra il trauma e l’arte, dopo l’incidente la letteratura gli servì (anche) per riprendere contatto con quel corpo in parte privo di sensibilità biologica, ma la poesia esisteva già: «Piano piano la possibilità di prendere in mano un libro mi ha ridato confidenza con il mio corpo», com’è spiegato in “Parole povere”, il film su Cappello di Francesca Archibugi. La sua opera, al di là dei successi di critica, riesce a creare un contatto diretto con i lettori. Osava trasgredire le regole, come il suo ultimo libro “Stato di quiete” (Rizzoli), con la prefazione di Jovanotti. Pierluigi non era di certo un paroliere, ma scegliere un rappresentante dello starsystem era un tentativo per rompere quell’anello che delega il genere a un circolo di 500 lettori. Con questo gesto rivendicò con forza il fatto che la poesia potrebbe averne molti di più. Ed effettivamente la sua è stata una scelta frontale, decisa, che non trovò molti poeti d’accordo. Ma l’obiettivo di Pierluigi non era proprio rivolto ai colleghi: «È un porsi frontalmente davanti alla società», disse «far capire che i poeti esistono e magari fanno anche delle cose interessanti». Ne ha fatte tante, di cose interessanti Cappello. I libri di poesia, certo, prima per edizioni locali, poi Crocetti e infine Rizzoli. Libri che gli sono valsi i migliori premi come il Montale (2004), il Bagutta (2007) e infine il Viareggio (2010), dopo mezzo secolo dall’ultimo friulano che l’aveva conquistato, Pasolini, ed era il 1957. Molti dei suoi testi sono raccolti in antologiche come “Assetto di volo” (Crocetti) e “Azzurro elementare” (Rizzoli) dove ci si può rendere immediatamente conto della forza della sua scrittura, sostenuta da critici come Giovanni Tesio, Franco Loi, Gian Mario Villalta e Anna De Simone che l’ha seguito passo per passo. Ma soprattutto Pierluigi si è sempre dato alla poesia, dato letteralmente, dato con quel corpo sfinito dalla costrizione all’immobilità, ma sempre in prima linea, continuamente presente lì dove le iniziative erano capaci di comunicare un’idea di scrittura alta: dalla collana “La barca di babele” con Ivan Crico, alle successive iniziative che l’hanno visto diffondere la quinta musa nelle scuole e nelle università. Il mondo della poesia quasi non ci crede, a questa scomparsa, perché Cappello aveva dalla sua una solarità vigorosa, un’adesione alla vita totale. Niente l’aveva sconfitto, né le perdite patite per il terremoto del 1976, né il terribile incidente in moto che da 32 anni l’aveva costretto in una sedia a rotelle. Se poteva, se riusciva ad alzarsi dal letto di quella casa prefabbricata a Tricesimo, dove visse molti anni, Pier c’era. C’era per la poesia, per i giovani che avevano bisogno di suggerimenti e per gli amici che avevano semplicemente bisogno di quattro chiacchiere. Non faceva distinzioni di ruoli, e questo è un grande merito, pur essendo giustamente schietto, come in alcune sue prose, nella distinzione tra poesia e qualcosa che vorrebbe assomigliarle. Tra i suoi maestri Ungaretti, Leopardi, Fortini. Ma c’è anche Wislawa Szymborska, lui che Szymborska l’ha conosciuta e tradotta e come lei amava il presente, così in uno dei suoi più intensi testi, essere appunto nel presente, anche se: “si vive/appena sopra la superficie del sogno/e tutto accade qui”. Non è un addio. Perché tutto continuerà ad accadere nei suoi versi.


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