Pier Paolo Pasolini sognava di raccontare in un film le schifezze che mangiamo

di Alessandro Mezzena Lona Tutti dicono che Pier Paolo Pasolini fosse un profeta. Un veggente che, leggendo il presente, sapeva anticipare il futuro. E a forza di ripeterlo, questa santificazione...
Di Alessandro Mezzena Lona

di Alessandro Mezzena Lona

Tutti dicono che Pier Paolo Pasolini fosse un profeta. Un veggente che, leggendo il presente, sapeva anticipare il futuro. E a forza di ripeterlo, questa santificazione dello scrittore, poeta e regista, puzza di retorica. Poi capita di aprire a caso le pagine di un’intervista, rilasciata il 2 aprile del 1975, esattamente sette mesi prima della sua morte violenta, e si rimane a bocca aperta. Perché parlando con l’amico americano Gideon Bachmann a proposito di un film che sognava di realizzare, dice chiaro e tondo: «Oggi propongono cose sofisticate: le robioline, i formaggini per bambini, tutto cose orrende che sono merda!».

Sono passati quarant’anni. L’Organizzazione mondiale della sanità lancia un allarme pesante, in questi giorni, sui cibi che favoriscono il cancro. E le parole di Pier Paolo Pasolini assumono il sapore della premonizione, che nessuno ha voluto ascoltare: «Non potrò farlo realisticamente perché, se io volessi fare realisticamente un film su un industriale milanese che produce biscotti, li reclamizza e li fa mangiare ai consumatori, potrebbe risultarne un film terribile sull’inquinamento, sulla sofisticazione, sull’olio fatto con le ossa delle carogne. Potrei fare un film così, ma non posso, perché non posso rappresentare un industriale milanese».

Del resto, Pasolini non faceva mistero di sentirsi l’erede della filosofia stoica «da opporre all’edonismo delle masse». Non addolciva mai il suo sguardo sulla realtà per far piacere a qualcuno. E ogni volta che si leggono le sue considerazioni sull’Italia, si resta affascinati dal coraggio e dalla feroce lucidità. Basterebbe aprire a caso una delle tante interviste rilasciate al giornalista, regista e fotografo Gideon Bachmann per rendersene conto. Quelle conversazioni custodite per quarant’anni negli archivi di Cinemazero a Pordenone che, adesso, finalmente sono state raccolte in un volume.

Il libro si intitola “Polemica politica potere”, lo pubblica la casa editrice Chiarelettere (pagg. 143, euro 16), è curato e introdotto da Riccardo Costantini, contiene una gran bella selezione di foto scattate dallo stesso Bachmann e dalla sua compagna Deborah Beer. Copre un periodo di dodici anni, dal marzo del 1963 fino al maggio del 1975, pochi mesi prima della morte di Pasolini. E si rivela una sorta di piccolo vademecum pasoliniano, sbozzato con le sue stesse parole, dove ragiona su cinema, linguaggio, fede, società, arte, poesia.

Convinto che l’Italia sia stata manipolata e rovinata da «uno sviluppo folle che è consistito nel consumare beni superflui», senza approdare mai a un vero progresso, pronto a sostenere che il Paese non ha mai trovato una sua unità, prova ne sia che una lingua comune non esiste, ma pullulano un gran numero di parlare locali («ci sono centinaia di forme dialettali diverse»), Pasolini metteva in guardia sul futuro. Segnalando la grave manipolazione operata sui giovani: «Hanno perso il sentimento del bello, dell’estetica, del compiuto, del finito, del formale», perché «brutalizzati da una serie di forme orribili dalla cultura della televisione». Il rischio è, diceva lo scrittore, cbe diventino una «massa acritica», con in testa un «modello umano piccolo borghese, benpensante, ipocrita». Perfettamente funzionale a quella che considerava la vera apocalisse prossima ventura: «La tecnologia, l’era della scienza applicata, quella civiltà che muterà antropologicamente l’uomo, farà dell’uomo qualcos’altro da quello che era prima».

Per Pasolini, la possibilità di cambiare il corso delle cose c’era ancora. Se la Chiesa cattolica, ad esempio, invece di continuare a supportare il Potere avesse trovato il coraggio di fare opposizione. Iniziando dal capire che l’uomo potrebbe salvarsi dall’apocalisse «con un vero controllo delle nascite». Fermando quello che Marx chiamava il «genocidio delle culture». Ovvero la spersonalizzazione, la globalizzazione: «Non esistono più i romani... Fai fatica a distinguere un fascista da un antifascista».

Eppure, Pasolini non smetteva di fare il suo mestiere di scrittore e regista. Sognando, con Gramsci, un cinema nazional-popolare. «Io non sono mai stato un neorealista, sono sempre stato un naturalista espressionistico. Il neorealismo è documentaristico e si fonda sulla registrazione, sul dialogo diretto... Invece tutte le mie opere sono un’elaborazione espressionistica, o fortemente espressiva, dei dati documentaristici». Si diceva d’accordo con il leader sovietico Nikita Kruscev che condannava «certe forme d’astrattismo». Però, da uomo libero, non approvava «le ragioni che lo spingono a polemizzare contro l’astrattismo».

Non si stancava mai, Pasolini, di ragionare attorno ai suoi film. A “Vangelo”, “Accattone”, all’ultimo girato prima di essere ammazzato: “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. Perché credeva che un artista possa trasformare la realtà sociale non «in senso organizzato, ma nell’intimo».

alemezlo

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