Pellegrino Artusi ancora detective Alla tavola imbandita c’è anche il morto

Federica Gregori
«Anche l’opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale». Una frase solenne che, non si sa bene perché, leggiamo scandendo e soppesando le parole con una certa gravità: almeno fino a quando non ci ricordiamo chi l'ha pronunciata. Sarebbe piaciuta a Umberto Eco, fautore dell'"alto" e del "basso" mischiati assieme, la citazione "diversamente colta" con cui Marco Malvaldi apre il suo nuovo libro che esce oggi per Sellerio. "Il borghese Pellegrino" (272 pagine, 14 euro) attacca, infatti, nientemeno che con un aforisma di Anton Ego, il perfido critico gastronomico del capolavoro d'animazione Pixar "Ratatouille". Risultato, ci sintonizziamo subito con lo spirito scanzonato cui ci ha abituato l'autore pisano, che diverte e si diverte, fin dalle prime pagine, libero e senza dogmatismi: la citazione, poi, volendo continuare con il mood culinario, sta come il cacio sui maccheroni. Perché dopo il successo di "Odore di chiuso" lo scrittore, momentaneamente sospesa la fortunata serie del BarLume che l'ha reso così popolare, torna a rendere omaggio a una figura realmente esistita: il grande gastronomo e critico letterario Pellegrino Artusi, artefice di una bibbia per la tradizione culinaria italiana come "La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene". Se con il primo romanzo Malvaldi ne celebrava i 100 anni dalla morte (1911), ora ne ricorda i 200 dalla nascita, avvenuta nel 1820. Non tragga in inganno, però: l'autore insiste sui temi di sapore culinario ma poi li elabora costruendo un giallo colto, arguto e decisamente brillante.
L'azione prende le mosse nella Firenze del 1900, durante un ottobre ancora caldo. Lì ritroviamo Pellegrino Artusi da Forlimpopoli, il "baffone di Romagna", descritto come un anziano signore dallo stile alquanto bizzarro, «vestito in marsina e cilindro, abbigliamento che sarebbe risultato fuori tempo massimo già alcuni lustri prima». Single incallito da sempre, allergico al matrimonio, è arrivato a 80 anni dopo una vita che immaginiamo, da buon romagnolo, godereccia e gaudente.
Un suo invito a cena, soprattutto, non si rifiuterebbe mai. Artusi è forte di due precetti: come Socrate sa di non sapere ma se una cosa conosce alla perfezione, quella è il cibo. «So come si cucina e come si mangia» scrive nel suo diario. Il mondo però è ipocrita e «non vuol dare importanza al mangiare: ma poi non si fa festa, civile o religiosa, che non si distenda la tovaglia e non si cerchi di pappare del meglio». Secondo grande credo del "borghese Pellegrino" è la convinzione che la cucina sia un linguaggio universale e che in nessun posto come a tavola si possano avviare buoni rapporti tra i popoli. Sarà vero? Non sembra, visti gli accadimenti del libro, che si snodano proprio a partire da una sontuosa tavolata, preparata con meticolosa cura per sancire un importante accordo commerciale tra Italia e impero turco.
Ci sarà quindi un castello, diversi invitati a gustare la luculliana cena ma uno in meno a risvegliarsi il mattino seguente. E sarà proprio il delegato preposto a decidere tali scambi. Tra misteri divertenti (perché indossare una maschera da scherma per entrare in una cantina?) e enigmi più astrusi da spiegare (il delegato sarà trovato morto in una stanza chiusa a chiave da dentro), Pellegrino Artusi sarà immancabilmente coinvolto, prima in veste di sospettato, poi determinante per la soluzione del rebus. Queste le carte che l'autore cala, catturando il lettore in un giallo avvincente e ben costruito che guarda al mondo degli affari di allora, senza cali di ritmo e sferzato dallo humour sapido che lo pervade, ora gustosamente sboccato (irresistibili i commenti della domestica Crocetta) ora più lieve e trattenuto. Non sempre riuscito, invece, lo stratagemma di abbinare una prosa dal sapore antico, con gusto di una parola ricercata e costrutti raffinati, a un riferimento moderno, tra il gesto del turco «come l’arbitro che chiama il VAR» o la descrizione di Delia, fanciulla d'altri tempi dal pallido incarnato e occhi così devastati dal rimmel «da sembrare il bassista dei Kiss». Troppo, anche per Malvaldi. —
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