Pasolini e quel viaggio nell’estate del 1959 da Ventimiglia a Trieste

di Federica Manzon «Un mucchio di monti trasparenti sul mare che bolle», «un fiume di stabilimenti Nettuno con i primi bagnanti, pensioni con gli annunci plurilingue - Zimmer, Zimmer e Zimmer...
Di Federica Manzon

di Federica Manzon

«Un mucchio di monti trasparenti sul mare che bolle», «un fiume di stabilimenti Nettuno con i primi bagnanti, pensioni con gli annunci plurilingue - Zimmer, Zimmer e Zimmer - gelati leccati golosamente , radio accese e partite a palla», spiagge che promettono l'impegno per essere felici come in una sagra d'amore. È un mondo troppo vivo questo perché un giovane scrittore si fermi a salutare il poeta Camillo Sbarbaro nella sua casa vicino al mare.

Siamo nella Riviera di Ponente, è il 1959, l'estate in cui Pier Paolo Pasolini sale sulla sua Fiat Millecento e si lancia all'esplorazione della costa italiana, da Ventimiglia a Trieste, per scrivere un reportage per la rivista "Successo". Ha appena pubblicato il suo secondo romanzo "Una vita violenta", forse ha già in testa la sceneggiatura per il primo film, "Accattone", ha amici tra attori, registi, scrittori e ragazzi di vita.

Da quel viaggio estivo durato tre mesi - la fotografia di un'Italia, povera, freghereccia e rampante - esce un reportage in tre puntante corredate dalle foto di Paolo di Paolo. I testi però vengono ridotti e tagliati per gli obblighi di spazio della rivista e forse anche per qualche imbarazzo da censura.

Il dattiloscritto originale vede solo ora la luce, per la prima volta ripristinato e raccolto in un volume "La lunga strada di sabbia" (Contrasto, pagg. 197, 24,90 euro). A realizzarlo è il fotografo Philippe Séclier, che a quarant'anni di distanza ha ripercorso lo stesso itinerario, ritrovando tracce, immagini e memoria del grande scrittore e del suo memorabile ritratto dell'Italia. Séclier ripercorre passo a passo le orme di Pasolini in quel lungo viaggio, per immortalare con un salto temporale di più di quarant'anni le stesse strade, le spiagge, le atmosfere. Il suo cammino fotografico è pieno di presagi: l'incontro con una vecchia Millecento nelle strade della Puglia; la scoperta a Ischia, nell'hotel Savoia ormai in disuso, di una stanza con una valigia e dei fogli manoscritti ancora intatti, il cielo di Trieste che lo accoglie con la stessa pioggia cupa che aveva dedicato a Pasolini. Coincidenze che danno vita a questo libro e insieme sembrano mettere in guardia da qualsiasi tentativo di togliere del tutto le ombre alla luce, perché lo sguardo e le parole di Pasolini non esisterebbero senza quella luce scura che gli ha sempre camminato accanto e ne ha segnato il destino.

In queste pagine, miracolosamente restituite nella loro integrità grazie all'aiuto di Graziella Chiarcrossi, la cugina di Pasolini, si ritrova lo sguardo affilato e lucidissimo dello scrittore, la sua vitalità malinconica, il suo acceso desiderio di vita nonostante o forse proprio perché una parte del suo animo rimane cupo, turbato e sempre esposto a un abisso di cui sembra vedere il fondo senza reti. Come a San Remo, dove lo seguiamo sgattaiolare al casinò nei panni di un moderno Charlot votato alla perdita, tra "cadaveri che giocano a baccarà", scommettitori che puntano alla roulette con gli occhi vividi e disperati delle vittime, e croupier che fanno della propria umile origine una specie di vanitosa leggenda. Ma poi c'è la spacconeria di Portofino, dove il padrone del celebre bar Gritta, con una faccia da pirata e l'aria complice, gli sussurra confidenziale: "Domani sera arriva Ava Gardner".

Un'Italia sgargiante e contrastata quella di Pasolini, fatta di letterati e artisti che si ritrovano sulle spiagge della Versilia a pochi metri dall'Avvocato Agnelli, Ischia con Luchino Visconti e Franca Rame che scende dal battello con un vestito verde "che la rende quasi quadrata, un sorriso da etrusca, due enormi limoni in mano". Siracusa sensuale e proibita, attraversata in macchina con l'amica attrice Adriana Asti. Ma anche la notte napoletana con ragazzini deformi e donne ingioiellate che cercano di rubare spiccioli e un po' di vita sotto l'ombra avvampante del Vesuvio.

I passi dello scrittore nell'estate del 1959 si mescolano allele foto di oggi di Séclier, la vivacità ipercontemporanea dei racconti trova uno specchio simmetrico nei morbidi colori seppiati delle foto un po' demodé. Le inquadrature metafisiche delle ville di Ravello scattate da Séclier fanno eco alla descrizione di una costa fulminata dal sole, eternamente estiva. Come se il gioco del tempo si imbrogliasse, e il passato della narrazione e il presente delle foto si mescolassero rendendo impossibile capire chi segue le orme di chi, chi suggerisca e chi riprenda la suggestione di una visione perfetta.

In questa corsa estiva Pasolini coglie già i dettagli rivelatori che anticipano la "mutazione antropologica" di una nazione che racconterà nei più duri Scritti corsari: gli adesivi "Dio aiutaci!" nei camion di Reggio Calabria e i banditi di quelle terre dove "si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge". E poi il grande salto dal sud al nord. Da cosa si capisce? Compaiono a un tratto le biciclette, compaiono le belle donne. E nella ricca costa romagnola le conversazioni non tradiscono uno solo dei luoghi comuni borghesi: "Non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace".

C'è una nostalgia straniante nella risalita verso le terre dove lo scrittore ha trascorso l'infanzia, e che non riconosce più: l'Adriatico che ha il colore degli impermeabili d'autunno, Jesolo con la sua spiaggia americana e i villini di un atroce rosa e gialletto che d'inverno si svuotano, Caorle dove i vecchi marinai e le ragazze dalla bellezza corallina hanno lasciato il posto a un lungomare di calce ancora fresca e a pensioni intonacate di color "cacca di bambino".

Pasolini si muove in fretta, sempre straziato nel momento di salutare un luogo che ha conosciuto anche solo per poche ore. Guida senza che nessuno riesca a trattenerlo - di lui rimane una solo foto, a Genova, ripreso contro il mare. Arriva a Trieste e l'attraversa tutta fino al Lazzaretto, per raggiungere quell'ultima spiaggia italiana dove la gente si accalca sui sassi a pochi metri dalla sbarra del confine, e oltre c'è solo un territorio disabitato, yugoslavo. Qui si ferma Pasolini, raccoglie le ultime voci "Presteme el petine" "Da dove vignìu?'" "Da quela barca lavia?" "A mi me ocore un petine questo el xè roto" mentre scende l'ombra biancastra di un temporale d'agosto. Qui finisce l'Italia, finisce l'estate.

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