Paolo Rumiz, un'isola, un faro: ecco "Il Ciclope"

TRIESTE È piuttosto arguto Paolo Rumiz, questo visionario viaggiatore senza tregua. "Il Ciclope" (Feltrinelli, euro 15,00), da venerdì 19 novembre in libreria, non fa mistero di questa arguzia. Ci narra di un'isola misteriosa nel Mediterraneo, difficile da raggiungere. Un'isola per cui, se siete tipi da osservare il mondo con i sensi, vi verrà voglia di imbarcarvi con il primo mezzo disponibile, con qualsiasi tempo previsto. E invece no.
A meno che non riusciate a capire di quale isola si tratti, Rumiz sta bene attento a non dircelo. Non ha nessuno voglia che ci sia un esubero di barche e di uomini in un luogo ancora vergine, popolato da uccelli e da un faro altissimo. Capirlo si può, se siete abbastanza svegli da raccogliere le tracce che l'autore dissemina, se avete anche voi l'occhio del Ciclope, come un faro che con quell'unico globo illumina il mare al di là dei suoi confini. Per la prima volta viviamo un'isola da coordinate prive della solita retorica. Il pensiero comune è che si raggiunge un'isola per scappare dalla terra. Leggendo "Il Ciclope" invece ci troviamo al centro di un universo senza pace, «una percezione pelagica del mondo».

E di mondo ce n'è parecchio, arriva inaspettato da una planimetria circoscritta, eppure aperta. Un'isola è una contraddizione, luogo di conoscenza e di oblio, dimora di dei, ma anche rifugio di mostri, un luogo che ti costringe a stare solo. Rumiz ci è andato, in quel posto disperso, motivato anche dal fatto che in parecchi lo sconsigliavano: «Ti annoierai», dicevano. In fondo lì c'è solo un fazzoletto di terra e due faristi.
La passione del nostro per i fari era iniziata molti anni prima, a Kea. E meglio se fari alla deriva, dove si respira ancora aria da Olimpo. Una ricerca capillare, rubando storie come solo gli scrittori sanno fare, allo Skipper Point, da Sandro Chersi, che oltre a narrare i più bei fari della terra ha le idee chiare sull'evoluzione dei tempi: «Ogi gavemo omini de merda su barche de plastica», sintetizza il lupo di mare. E poi altre vicende, registrate da autori come Tim Robinson o Pierre Dubois, storie macabre di uomini impazziti per l'isolamento o la paura. Perché il faro è un non luogo, adatto anche al passaggio dei non vivi. Nulla di troppo spaventoso, ma è un fatto che l'aria idilliaca che detta il climax alla prima parte del libro, svolta poi in direzione di una natura infuriata, violentata dall'uomo.
In 30 anni il Mediterraneo si è svuotato del 70% delle sue risorse ittiche e le isole non sono più ponti ma soste disperate di migranti. Questo si può captare nell'isola del Ciclope, se capire diventa sentire e tu stai seduto nella stanza più alta della torre, con i venti che ululano e quell'occhio illuminato da prismi capaci di moltiplicare la luce: «Diventi come Ungaretti in trincea, digrigni parole sempre più scabre» scrive l'autore. «E soprattutto senti che è subito sera». Impossibile non pensare a Trieste, una specie di sensore simile a un faro e che per molti aspetti ha "sentito" in anticipo i tempi.
Il primo a parlargli dell'isola . fu un capitano turco. Poi un cameriere marsigliese. A convincerlo però è stata un'archeologa dalmata, raccontando il suo soggiorno di ricerca e alludendo a come proprio lì sia sepolto un antico eroe greco. E l'aria che si sente ti strega. Il punto è che una tale ricettività è possibile solo in quel fanale in mezzo al Mediterraneo, cuore liquido d'Europa.
Ma che ne è stato di quel Mare Nostrum che da sempre era di tutti? Se lo chiede e richiede Paolo Rumiz, palleggiandoci la domanda. Un mare ormai scomparso, diviso in spazi bipolari, non più ponte di metamorfosi e integrazioni identitarie. Eppure ci vuole un mare così, spiega Rumiz, per farsi stregare. A fine libro tutti vorrebbero raggiungere l'austero Ciclope che si leva col suo unico occhio, veglia e agita l'intimità della memoria: quella dei ricordi di altre isole, ma anche la presenza familiare della Lanterna. Soprattutto apre le porte alla percezione dell'anima e dell'anima di Trieste. Chi possiede una casa con vista, in fondo, è come se abitasse in un faro, con l'occhio saldo all'orizzonte. Lo sapeva bene un amico scomparso dell'autore, ostinato in questa ricerca, nonostante l'imminente fine: vale sempre la pena abitare una vista aperta.
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