Paolo Isotta: «Ecco perché Verdi è stato maestro del Grand-Opéra»

Alex Pessotto
Da quando, nel 2015, ha deciso di ricominciare con lo scriver libri dopo circa trent’anni di assenza, Paolo Isotta, storico della musica e a lungo critico del Corriere della Sera, mai si era dedicato a un compositore soltanto: infatti, “La virtù dell’elefante” e “Altri canti di Marte” hanno sì al centro il mondo delle note, ma non quelle di un unico autore, mentre “Il canto degli animali” si occupa, tra mille dissertazioni, di cani e gatti per arrivare a delfini, furetti e civette. Infine, “La dotta lira” è dedicato al rapporto tra il prediletto Ovidio e la musica.
Sempre edito da Marsilio, “Verdi a Parigi” (pagg. 672, euro 28), uscito da pochi giorni, è invece un’imponente monografia sulla produzione del cigno di Busseto, ma con un particolare riferimento al suo debito nei confronti del Grand-Opéra e al suo determinante contributo nell’evoluzione di quel genere.
Maestro Isotta, da parte sua quello per Verdi non è un amore giovanile…
«Ho avuto la fortuna di migliorare col tempo…».
Perché si è soffermato così ampiamente sul legame tra Verdi e il Grand-Opéra?
«Ho tentato di ricostruire la personalità completa di Verdi. In particolare, ho voluto lottare soprattutto contro due categorie di sciocchi. La prima, nazionalistica, che considera un’opera di prostituzione scrivere in una lingua che non è quella italiana, ma quella francese, e scrivere balletti all’interno delle opere. La seconda, anglosassone, che nega una palese verità, non riconoscendo che il Grand-Opéra è una creazione italiana in quanto frutto del lavoro di Salieri, Cherubini, Spontini, Rossini e Donizetti, prima di Verdi, con cui si culmina».
Un intero capitolo del libro è dedicato a “Stiffelio”, rappresentato in prima al Verdi di Trieste nel 1850, quando ancora si chiamava teatro Grande. Che posto occupa nella produzione dell’autore?
«Il libro ha ambizioni di essere, se possibile, analitico e rivelatore, ma il capitolo sullo “Stiffelio” è anomalo, perché è in forma di parodia. La storia di un sacerdote protestante che sa di essere cornuto, confessa dal pulpito le proprie corna e perdona dal pulpito la moglie che lo cornifica non riesco proprio a prenderla come un fatto serio. Io ci ho scherzato sopra, facendola svolgere a Caltanissetta all’inizio degli anni Cinquanta e costruendoci una storia parallela. Nello “Stiffelio” c’è comunque bellissima musica e Verdi ne aveva un’alta considerazione».
Anche un’altra opera di Verdi, “Il Corsaro” aveva debuttato a Trieste due anni prima, precisamente il 25 ottobre 1848…
«È una delle opere meno eseguite e conosciute. Peraltro, Verdi non andò nemmeno a Trieste per metterla in scena e da ciò si potrebbe desumere che si tratti di un lavoro di seconda categoria, ma io non sono affatto d’accordo: è un’opera in crescendo, di un’enfasi un po’ ridicola, in anni in cui certe vicende estreme trovavano compiacimento. Il primo e il secondo atto sono musica buona, di fattura impeccabile, mail terzo è un capolavoro e riesce a dar vita a due personaggi femminili, opposti e sublimi, lumeggiandoli con caratteri musicali completamente diversi. E poi c’è l’eroe, Corrado, che quando è prigioniero canta quel meraviglioso arioso in mi minore accompagnato dalla viola sola e ci fa raggiungere l’Empireo. Il finale, poi, è talmente alto che per me non è inferiore a quello della “Norma”».
Quali interpretazioni di “Stiffelio” e “Corsaro” tiene a ricordare?
«Entrambe le opere sono state incise da un grande direttore veneziano, Lamberto Gardelli, che è stato uno dei più grandi degli ultimi decenni, anche se veniva considerato “di routine”, mentre aveva una tecnica straordinaria e un sentire raffinatissimo. Il suo “Requiem” di Verdi che si trova in rete è paragonabile a quello di Karajan».
Lei, noto per i suoi giudizi taglienti, non ne risparmia uno per Piero Cappuccilli, che cita nel capitolo dedicato al Trovatore definendolo “mediocre”…
«Cappuccilli, aveva una vovoce bellissima e potente, ma non era molto musicale e, soprattutto, diceva il maestro Tullio Serafin, ignorava la lettera p, che vuol dire piano».
Invece, anche se non è citato nel libro, più volte si è espresso in termini lusinghieri nei confronti del basso friulano Bonaldo Giaiotti.
«È stato il più grande, l’autentico basso degli ultimi cinquant’anni, anche perché gli altri, eccetto Siepi, che era un grande pure lui, sono più delle imitazioni che dei bassi veri e propri. Il timbro, la risonanza di Giaiotti mancano moltissimo. E poi aveva una indimenticabile squisitezza di comportamento. Citando sempre il maestro Serafin, per interpretare il “Mefistofele” di Boito bisogna essere una cooperativa di bassi e Bonaldo Giaiotti lo era. Purtroppo, ritengo però che né in vita né dopo la morte abbia avuto i riconoscimenti che meritava». —
Riproduzione riservata © Il Piccolo