Oggi è il giorno dedicato al Sommo Poeta ma di lui non conosciamo la lingua

Il triestino Fabio Romanini: «Di suo pugno non abbiamo nulla, è in atto una ricerca filologica»

TRIESTE. Rischiavamo di perdere un lembo di Paradiso, per la precisione tredici canti. Finché, racconta Boccaccio, al figlio di Dante Jacopo comparve in sogno il padre defunto, che glieli fece rinvenire già un po’ ammuffiti dentro un tramezzo coperto da un tappeto. Boccaccio si era inventato il giallo e dal giallo il passo verso la leggenda è breve, mischiando nel suo “Trattatello in laude a Dante” notizie vere e altre meno attendibili.

Curiosamente, al mito su cui poggia la nostra identità nazionale mancava ad oggi una data celebrativa ufficiale. Il Dantedì è stato individuato a partire da quest’anno su proposta del ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini: il 25 marzo, che gli studiosi riconoscono come inizio del viaggio nell’aldilà della Commedia, e anticipa la ricorrenza più pesante del prossimo in cui cadranno i 700 anni dalla morte dell’Alighieri.

Fabio Romanini
Fabio Romanini


Fabio Romanini è docente di Linguistica italiana al Dipartimento di Studi Umanistici dell’università di Trieste e dedica molta parte della sua attività di ricerca all’opera dantesca con particolare riferimento all’indagine stilistica e filologica.

Professor Romanini, cos’è che ancora non sappiamo di Dante?

«Non sappiamo - risponde Romanini - com’è realmente la sua lingua perché non si è conservato nemmeno un rigo di suo pugno. Dante scrive la Commedia dall’esilio, dove muore, e dall’esilio la Commedia fa la sua comparsa nella natia Firenze: ma quale è il Dante autentico? Siamo nel campo delle ipotesi. I copisti erano settentrionali, ravennati, bolognesi, veronesi e lo ibridarono con i loro termini dialettali mentre a Firenze lo rifiorentinizzarono ma ringiovanendo i vocaboli di almeno una ventina di anni.

Lo studio universitario insegna a leggere dentro al testo il processo creativo dell’autore e ne fornisce un quadro più completo. Io e altri allievi di Paolo Trovato, ordinario di Linguistica italiana a Ferrara, stiamo applicando attraverso l’esame dei manoscritti settentrionali criteri filologici e interpretativi che restituiscano l’originale parola dantesca perduta nei secoli per ipotizzare una nuova lettura delle opere».

E una volta ritrovate le parole autentiche?

«Significa precisare il testo reale per capire quale Dante stiamo leggendo, alle volte frainteso dalla critica letteraria dell’800 che non ha tenuto conto di certi parametri, e significa anche capire la motivazione critica stessa. Dante è stato mitizzato durante il patriottico Romanticismo, interessato a proclamarlo eroe della politica, rivoluzionario e riformista, profeta delle italiche virtù.

È solo a partire da quel momento che assurge a poeta nazionale e gli studi critici sono concentrati specie tra la seconda metà dell’800 e il primo 900. Boccaccio lo amava, Petrarca ne era rivale. Nel 600 si rinfocolò la polemica linguistica del secolo precedente e la stampa della Commedia toccò i minimi storici. Certo il suo successo fu clamoroso durante il XIV secolo nella sua Toscana per poi subire un deciso declino».

Comunque possedere una Commedia all’epoca era prestigioso…

«Valeva almeno due mesi di lavoro di un copista, più costo di inchiostri e penne, più quello del miniatore ed eventuali decori in oro zecchino. Poteva essere un regalo di rappresentanza, come quella ricevuta da Mattia Corvino che attirò a Buda umanisti e artisti, facendo della sua corte uno dei centri più raffinati d’Europa; ma esistevano anche copie più modeste a uso di intellettuali con mezzi minori».

Chi lo leggeva?

« Era letto da mercanti, notai, come da gente di altissimo lignaggio. Al mondo esistono circa 900 manoscritti, ma per ogni copia rimasta ne sono andate smarrite altre 9, vale a dire una perdita che sfiora il 90 per cento».

Ma questo testimonia anche dell’interesse per l’autore.

«Il mistero della creazione resta sempre affascinante, è una combinazione di tecnica e d’inventiva. Le statistiche che lavorano sul lessico dimostrano che il 90 per cento dei nostri termini risalgono ai tempi di Dante, a sua volta una fucina di neologismi: se non esisteva la parola che gli serviva, la inventava. Ciò fornisce un quadro più completo del padre della nostra lingua. Poi un tocco di colore al linguaggio corrente lo dà qualche suo verso diventato modo di dire: “Serva Italia, di dolore ostello…”. O parole scritte e pronunciate uguali slittano di significato.

Basti pensare al sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare…”, dove gentile sta per nobile, onesta per piena di dignità, e pare vuol dire appare (e non un maligno ‘sembra’). Ciò che invece fu palese è che il genio creativo non necessariamente si tramanda. I figli di Dante, Pietro e Jacopo, dato che quei benedetti tredici canti erano scomparsi, vennero pregati di terminare il poema dato che “ciascuno era dicitore in rime, per persuasione d’alcuno loro amici messi a volere, quanto per loro si potesse supplire la paterna opera”… Il provvidenziale fantasma biancovestito soffuso di luce, che otto mesi dopo la sua morte additò la parete del suo studiolo, permise di ritrovare le autentiche e dimenticare il, si narra, pessimo tentativo degli eredi». 

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