Non fa paura il seguito di “Shining” In “Doctor Sleep” è tutto piatto



Era veramente necessario ritornare all’Overlook Hotel? Quasi 40 anni dopo l’uscita di “Shining” di Stanley Kubrick, dal romanzo di Stephen King, arriva al cinema un sequel che fa rimpiangere l’oblio dell’albergo più terrificante del grande schermo. “Doctor Sleep”, tratto proprio dal seguito letterario firmato da King nel 2013, racconta com’è diventato da adulto Danny Torrance (Ewan Mcgregor), il piccolo protagonista di “Shining”. Quarantenne, alcolizzato, non ha mai davvero superato il trauma degli eventi dell’Overlook Hotel e l’aggressione del padre impazzito. Ha cercato di relegare in “scatole” della sua mente sia le creature malefiche dell’albergo, che continuavano a perseguitarlo, sia la sua “luccicanza”, ovvero il potere di mettersi in contatto con gli spiriti e il pensiero degli altri. Ma proprio quando finalmente riesce ad uscire dall’alcolismo e ad avere una parvenza di vita normale, un’altra persona dotata di luccicanza si mette mentalmente in contatto con lui: è l’adolescente Abra (Kyliegh Curran), inseguita da una setta che persegue l’immortalità proprio succhiando la luccicanza e uccidendo chi ne è provvisto. Danny capisce che deve aiutare Abra a sfuggire alla setta e alla sua leader, Rose Cilindro (Rebecca Ferguson).

Il problema principale di “Doctor Sleep” è che, pur essendo un horror, non fa paura. Eppure sulla carta il progetto nasce sotto i migliori auspici: il regista Mike Flanaghan è uno specialista del genere, dopo aver diretto “Oculus – Il riflesso del male”, “Somnia”, il fortunato “Oujia – L’origine del male” e adattato per Netflix il romanzo di King “Il gioco di Gerald” (2017). In più, lo scrittore ha avallato la sceneggiatura, mentre ha sempre criticato negativamente il film di Kubrick accusandolo di non approfondire abbastanza le dinamiche famigliari e la figura di Wendy, la madre di Danny. Curioso, perché in “Doctor Sleep” si sente ancor di più la mancanza di qualsiasi scavo psicologico che accenda un interesse per la storia dei protagonisti. Sebbene girato con mestiere, “Doctor Sleep” non è che una sequela di canonici ingredienti horror, con antagonisti prevedibilissimi e una prima ora dal ritmo soporifero. A parte Ewan McGregor, che cerca di dare tridimensionalità a un personaggio incastrato nel suo trauma, e alla giovane Kyliegh Curran, nei panni di una ragazzina con poteri psichici, mancano attori e facce efficaci, com’erano quella di Shelley Duvall o Joe Turkel, la Wendy e il barista di “Shining”: un horror parte anche dal casting. Qui tutto è appiattito, anche esteticamente. Manca soprattutto quel “perturbante”, l’elemento familiare e innocuo che si rivela malefico, sul quale era cucito il terrore di “Shining”. Per far rivivere il mito non basta rigirare con attenzione filologica alcune scene cult del film di Kubrick, come la corsa in triciclo di Danny sulla moquette col celeberrimo pattern esagonale, o l’effluvio di sangue dalle porte dell’ascensore. Non basta ricreare il panico dell’inseguimento nel labirinto innevato. La debolezza sta prima di tutto nella sceneggiatura che cerca appigli nella contemporaneità, ma perde il fuoco sul personaggio più intrigante della vicenda, il Torrance cresciuto che ha affrontato l’indicibile. La supercattiva del film è una strega tra il gitano e il New Age, fra i sodali nessuno è davvero degno di nota. Gli unici brividi li assicura ancora una volta l’Overlook Hotel, con la sua eleganza in decadenza, ma anche il confronto di Danny con lo spettro del padre arriva troppo tardi e con un attore che invano tenta di duplicare l’inarrivabile Jack Torrance di Jack Nicholson. E così non si trema. —







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