Nickolas Butler nell’America dei vecchi amici e dei jukebox
TRIESTE Cosa distingue un grande scrittore da un buon romanziere che probabilmente ci scorderemo con l’arrivo del prossimo fenomeno editoriale? C’è un vecchio adagio che circola tra critici e letterati, una battuta di spirito che come tale coglie però una qualche verità: il vero autore scrive sempre uno e un solo libro, si dice, e la sua voce è riconoscibile a colpo sicuro.
Nickolas Butler è allora uno scrittore che leggeremo ancora a lungo. Ce lo conferma il suo ultimo libro “Sotto il falò” (Marsilio, pagg. 236, 17,50 euro). Una raccolta di racconti in cui ritroviamo la cifra peculiare dell’autore del Wisconsin, cantore di paesaggi aperti e sentimenti autentici, di grandi laghi gelati e praterie sconfinate attraversate da chilometri di solitudine.
Leggere Nickolas Butler è un’esperienza che ci obbliga a un cortocircuito temporale. Da un lato c’è la scrittura evocativa e veloce, un ritmo e una costruzione delle scene che ci ricorda le migliori serie tv. E dall’altra c’è il movimento poetico della pagina, la sua capacità di rallentare e soffermarsi su dettagli e gesti con un gusto da vecchia America, quella che ha sempre festeggiato gli home run, le vincite alla lotteria, i barbecue del 4 luglio, i motori v8, la devozione e il sentimento. Quell’America che crede ancora che il Grande Romanzo debba contenere tre cose: una famiglia, un panorama, un combattimento.
Butler ricostruisce un mondo che pensavamo spazzato via dalle nevrosi newyorkesi o dalle mode politicamente corrette della West Coast, da una schiera di scrittori di successo residenti a Brooklyn e affascinati dal realismo isterico. Con lui torna tutto ciò che avevamo dimenticato potesse essere materiale della letteratura: le amicizie maschili che durano una vita, i pub con i jukebox e i pick-up radunati attorno ai falò, le donne che sanno tener testa alle bravate dei mariti.
E anche se siamo davanti a un libro minore rispetto al suo esordio “Shotgun Lovesongs”, anche se a volte la monotonia dell’orizzonte rischia di annoiarci un po’, e non tutti i racconti ci convincono, c’è un motivo che ci spinge a leggere questo libro fino alla fine: davanti a un mondo cinico dove le cose non sono mai quello che sembrano, dove veniamo educati alla scaltrezza e a non prendere mai niente sul serio, dove siamo troppo consapevoli e svegli e in carriera per pensare che le relazioni contino davvero, la voce di Butler ci fa sentire più umani, ci fa venire voglia di chiamare i vecchi amici di infanzia – di tornare a quella casa con il portico, con un nonno e un bambino seduti sul dondolo di ferro a guardare cadere la pioggia sul fienile senza dirsi una parola. —
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