Nell’astronave di Melara l’avventura comincia con un taglio di capelli
Luca detestava quando gli chiedevano di fare qualcosa di nuovo. Tutto quello che non conosceva lo metteva di malumore, lo agitava, riusciva perfino ad avvelenargli la colazione che per lui era il momento più importante della giornata. La mattina assaporava sempre il caffè ascoltando una frivola stazione radiofonica, spalmava col cucchiaino la marmellata su due biscotti e intanto lanciava lo sguardo ancora assonnato verso il mare lontano.
All'assenza del traffico e dei classici rumori si era adattato subito e aveva silenziato la suoneria del telefonino: nel suo essere meticoloso rispettava il nuovo ordine. L'insolita sospensione di quei giorni chiuso a casa era un invito a tenere aperte le finestre, per intercettare il canto degli uccelli, per sbirciare cosa accadeva attorno. In realtà non succedeva molto: tutti avevano preso seriamente il divieto di uscire ma, per una ragione che a Luca sfuggiva, sembravano anche aver smesso di parlare, di sbattere le porte, di disturbare. A lui non restavano che le lunghe telefonate con Caterina ma era una condanna essere separati da tanti chilometri per un periodo che avrebbe potuto protrarsi a lungo. Per vincere la solitudine aveva cominciato ad affacciarsi al terrazzino interno, quello che dava sull'immensa corte di cemento armato. Una chiacchiera, un invito clandestino, qualche ombra dietro ai vetri. E poi era successo.
Erano passate due settimane dall'inizio dell'isolamento quando gli era arrivata la richiesta. Tagliare i capelli a qualcuno che conosceva appena: ma quando mai? Lui odiava che lo obbligassero a fare cose strane e si era infuriato con se stesso per non aver saputo rispondere subito di no. Un problema che doveva affrontare esaminando tutti i dati in suo possesso.
Primo lato. Alla radio avevano lanciato l'idea di andare al balcone e cantare insieme ai vicini. A Luca sembrava un'idiozia ma era spinto dalla noia: i lunghi corridoi che percorreva per andare a fare la spesa in quei giorni rimanevano deserti, lo sterminato parcheggio era spettrale. Di tutto il colossale casermone, affacciandosi al terrazzino, aveva intercettato solo quell'uomo coi baffi che abitava nello stabile a fianco, mai notato prima. Brandiva un assurdo megafono a forma di microfono, di quelli che vendono gli ambulanti. Poche battute gridate a distanza con la bora che cominciava a precipitare giù dal colle e in breve si era ritrovato nell'appartamento di quell'altro. «Non si dovrebbe neanche andare in visita agli amici», sussurrò Luca in tono di scusa mentre si accomodava su un vecchio divano. «Ma noi non siamo amici», rispose divertito Franco versando della birra in due bicchieri.
Doveva aver superato i cinquant'anni ma era un tipo atletico e scattante, con una voce profonda e gli occhi vispi. «La tua fidanzata è rimasta bloccata a casa sua?», gli chiese. A Luca andò la birra di traverso: «Come fai a sapere di Caterina?» Franco continuò a sorridere senza scomporsi: «Anche se viviamo in due diversi lati del comprensorio, dal balcone ci si fa un'idea della vita degli altri. Tu non guardi mai da questa parte». Il ragazzo rimase interdetto: lui non aveva mai fatto caso a chi viveva negli appartamenti intorno a lui. Quel posto lo trovava comodo per la vicinanza con l'ospedale e l'affitto che pagava era davvero conveniente ma prima di allora non si era preoccupato di prestare attenzione agli altri. «Melara è un luogo strano, o lo ami o lo odi», disse Franco, «tu da che parte stai?». Luca pensò a Caterina e al fatto che lei non poteva soffrire il quadrilatero. «È lontano dalla stazione e dal centro», si lamentava la ragazza, «ed è inquietante vivere in questo sterminato scatolone grigio che sembra un penitenziario». Poi aveva fatto un riferimento alle piazze vuote di De Chirico, certamente con intenti denigratori, ma a lui quella sovrapposizione metafisica non era dispiaciuta. Il tirocinio che l'università gli aveva assegnato doveva svolgerlo all'ospedale lì vicino, con lo scooter si trattava di un attimo. «Per me un posto vale l'altro», rispose Luca con aria sufficiente, «se mi proporranno di cambiare città non farò fatica a spostarmi ancora». Da giorni non parlava faccia a faccia con qualcuno e al telefono sentiva solo sua madre e Caterina, per cui si abbandonò volentieri a una lunga chiacchierata con lo sconosciuto. «L'impasto per la pizza sta lievitando», annunciò Franco più di un'ora dopo, «seguimi in cucina e prepariamoci la cena». Luca protestò appena, poi si mise ad aiutare il padrone di casa. Parlarono di musica, di viaggi, di politica e soprattutto di sport all'aria aperta di cui Franco era un appassionato e quando, finito di mangiare, quest'ultimo gli si avvicinò e gli accarezzò le spalle e la schiena, Luca per la sorpresa non seppe come reagire. Si congedò poco dopo e rientrato nel suo appartamento non fece che pensare a quell'incontro anomalo. Secondo lato. Un'altra mattina luminosa coi colori della primavera s'infilò tra le austere linee geometriche del complesso residenziale di Melara. Luca aveva discusso con il suo professore e poi aveva riversato la rabbia nella chiamata con Caterina, per cui quando ricevette il messaggio di Franco che lo invitava per la birra rispose subito di sì. Si infilò la mascherina anti-contagio e percorse la teoria di corridoi e scale: nessuno gli avrebbe chiesto dove era diretto, nessuno lo avrebbe notato spostarsi, nessuno avrebbe mai osato obiettare che stava facendo qualcosa di sbagliato. «Che cosa ti manca di più da quando siamo confinati in casa?«, gli domandò Franco dopo avergli riempito il bicchiere. «A parte la tua fidanzata, ovviamente». Luca emise un impercettibile suono di fastidio: «Mi mancano gli aperitivi con gli amici e i compagni di corso. Quelle serate interminabili di chiacchiere e scherzi fuori da un locale del centro, tra una sigaretta per socializzare e il solito kebab che blocca la fame». L'uomo annuì: a lui, invece, mancavano le escursioni nella natura, i giri in bicicletta, le esplorazioni in montagna, le prime notti in tenda in riva al mare. Dalla finestra gli indicò località che Luca aveva solo sentito nominare e con parole sontuose gli fece sorvolare sentieri e raggiungere panorami.
«Domani mi taglierai i capelli», concluse Franco. Con il suo modo divertito e risoluto lo incastrò così, senza apparente difficoltà. «Che importa se non l'hai mai fatto?», lo incalzò in risposta alla sua espressione perplessa, «Che ci vuole a usare il rasoio e a sforbiciare un po'?». E così il giorno seguente il ragazzo era di malumore già a colazione. Neanche la radio frivola riuscì a risollevargli il morale e i primi messaggi in chat con Caterina anticiparono un litigio che si sarebbe puntualmente presentato al telefono prima di pranzo. Quando entrò dall'amico, Luca aveva solo bisogno di pensare ad altro e di svagarsi. Afferrò gli strumenti che Franco aveva preparato e si mise a regolargli i capelli. Passare le mani sulla cute dell'uomo, infilare le dita nella chioma, concentrarsi su un'attività che non aveva mai fatto: tutto contribuì a portare il ragazzo in un confuso stato di benessere. Poi qualcosa turbò quel momento di calma.
Franco disse: «A causa dell'epidemia hanno richiamato al lavoro i medici in pensione e anche gli studenti di medicina sono coinvolti negli ospedali. Perché tu no?». La domanda lo ferì a tal punto che Luca fu sul punto di sollevare un braccio per colpire l'uomo col pugno. Non ci pensò lucidamente, agì d'istinto. Fese l'aria con un sibilo e assestò un bacio sulle labbra baffute di Franco. Doveva troncare quella conversazione! Ma provò una sensazione davvero particolare: non era abituato a ritrovarsi sul viso una barba altrui. Poi invece le cose imboccarono un sentiero noto, una lingua intercettò la sua, un corpo si impossessò dell'altro e i respiri si confusero insieme per magia.
Luca rientrò a casa un'ora più tardi con un chiodo fisso: il suo problema adesso prevedeva calcoli e variabili che mettevano al centro i sentimenti.
Terzo lato. L'indomani i profumi della primavera invasero con prepotenza ogni linea e ogni angolo dell'imponente struttura cementificata raggiungendo anche la camera del ragazzo. In quella giornata muta e anonima in cui i bollettini presentavano come sempre numeri di morte Luca riscopriva il suo corpo indolenzito dalla sorpresa di essere vivo.
Ma cos'era successo nell'appartamento di Franco? Quale strana reazione gli aveva procurato il fatto di tagliare i capelli a quell'uomo? La segregazione poteva condurre alla pazzia? Tutto gli appariva nuovo, eccitante, e il fatto di trasgredire al divieto di isolamento gli restituiva le cose che ultimamente credeva di aver perso, le cose che piacciono a vent'anni. Sul cellulare c'erano già tre messaggi di Caterina, ognuno infarcito di una lamentela o di un'accusa. Luca lesse tutto, passando sopra un dito consapevole e noncurante, come da bambino quando staccava una crosticina di sangue dalle ginocchia del cuginetto.
«Oggi possiamo preparare un pasticcio», proponeva Franco e i due si mettevano a cucinare. «Vediamo se questa vecchia chitarra è accordata» ed eccoli a suonare. Film, racconti di viaggio, discussioni. Ma ciò che sorprendeva Luca sempre di più era il legame che giorno dopo giorno, ora dopo ora, si creava con quell'uomo. Franco era l'unica persona che incontrava da settimane, l'unico con cui si confrontava nella stessa stanza, l'unico che lo toccava e che lo accarezzava. La voce di Caterina al telefono risultava ancora più ruvida e lamentosa eppure lui si ripeteva di essere innamorato di quella ragazza, e in un passato non così remoto aveva trovato speciale anche la sua voce.
«Appena potremo uscire di nuovo ti porterò a camminare nel bosco», gli diceva Franco, «c'è un torrente con una cascata che devi assolutamente vedere. E voglio insegnarti ad arrampicare sulla roccia». Luca faceva sì con la testa mentre si tenevano per mano sul divano guardando i telegiornali che mostravano un mondo del tutto stravolto, distante anni luce dall'intesa avvolgente della loro segreta vita a due. Luca diceva di sì ma in realtà non aveva nessuna fretta di ritornare alla normalità: sapeva che quella era una parentesi e voleva gustarla ancora un po'. Le autorità diedero il permesso di fare attività fisica nei pressi delle abitazioni e così una sera due ombre scivolarono fuori dall'astronave che ospitava quattrocentosessantotto appartamenti. Fu emozionanate la prima camminata all'aria aperta senza guardarsi le spalle con sospetto dopo tante settimane. Fu qualcosa che Luca avrebbe definito, in un secondo momento, romantico. Il cuore gli batteva mentre si inoltrava nella natura fresca e scura seguendo Franco. Voltandosi al mega edificio illuminato si chiese se tra le duemilacinquecento persone sconosciute che abitavano lì ci fosse qualcun altro che stava vivendo un'avventura simile alla sua che era bella come un cuore.
Caterina era sempre più nervosa, non capiva perché lui non le rispondesse subito quando lo chiamava, dubitava della sua fedeltà per i pochi messaggi che le scriveva. «A distanza per me è difficile», si difendeva goffo Luca, «e tu adesso non sei qui». Si ricordò di un racconto di Tolstoj letto a scuola. Un imperatore poneva a tutti tre domande esistenziali: qual è il momento migliore per intraprendere un'azione? Quali sono le persone più importanti con cui collaborare? Qual è la cosa che più conta nella vita? Dopo aver interrogato chiunque, il sovrano ricevette le agognate risposte da un eremita: l'unico momento di cui siamo padroni è il presente, la persona più importante è sempre quella che ci sta di fronte, e la cosa che più conta è rendere felice chi hai accanto. Luca si ritrovava in queste considerazioni, o forse erano una scusa calzante per la sua coscienza ballerina. Franco gli raccontò: «Gli architetti che hanno progettato il quadrilatero volevano farne un piccolo mondo indipendente in cui ci fossero tutti i servizi e i negozi, in modo che i suoi abitanti non avessero bisogno di muoversi da qui. Beh, l'utopia adesso è diventata realtà». Ma una mattina la frivola stazione radiofonica annunciò la fine dell'emergenza e Luca si scoprì con un incastro da risolvere.
Quarto lato. La voce di Caterina quel giorno gli sembrò più calda e accogliente. Non ci pensò su: verificò che il treno partisse, comprò il biglietto e preparò al volo una borsa. Non salutò il suo amico di quarantena, uscì dal quadro metafisico in cui era rimasto sospeso a lungo mentre i corridoi e il cortile di Melara si ripopolavano piano. Dal treno semi deserto vedeva sfilare il mare, adesso vicinissimo, mentre Caterina gli annunciava via chat che, appena arrivato, avrebbe dovuto aiutarla a tingersi i capelli.
Luca detestava quando gli chiedevano di fare qualcosa di nuovo anche se adesso di capelli ne capiva qualcosa di più. Chiuse gli occhi con forza e immaginò in ogni e qualsiasi maniera cosa scrivere a Franco. Gli saltarono davanti mille lettere dell'alfabeto combinate in formazioni altisonanti e ipocrite. Alla fine afferrò il telefonino e digitò: «Noi non siamo amici. A presto». —
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