Nella villetta con ospiti di Ferlan tutti mostrano il loro lato oscuro

La sceneggiatrice nata a Trieste con il marito regista Ivano De Matteo sarà l’1 febbraio al “Giotto” per presentare il suo ultimo film, in sala da giovedì



Ci sono pochi sentimenti capaci di rendere l’uomo cattivo quanto la paura. Lo racconta “Villetta con ospiti”, il nuovo film di Ivano De Matteo e della moglie Valentina Ferlan, al cinema dal 30 gennaio. Valentina è nata a Trieste anche se vive a Roma fin da quando era adolescente: l’1 febbraio, insieme al marito, tornerà nella sua città per presentare il film al Cinema Giotto, alle 20. De Matteo e Ferlan hanno due figli e collaborano insieme dal 1991, lui regista e lei sceneggiatrice: una coppia artistica e di vita rodata che ha messo in cantiere ben sei film. In “Villetta con ospiti”, girato a Bassano del Grappa, raccontano una tipica famiglia benestante e apparentemente perbene del Nord: il marito (Marco Giallini) è un imprenditore del vino con un’amicizia dubbia con un poliziotto (Massimiliano Gallo), la moglie (Michela Cescon) è devota alla chiesa e dipendente dagli psicofarmaci. Intorno a loro si muovono un primario corrotto (Bebo Storti), un prete (Vinicio Marchioni) con qualche peccato nascosto e la badante rumena (Cristina Flutur), onesta lavoratrice che spera in un futuro in Italia per il figlio. Se di giorno tutto sembra scorrere normalmente, di notte si scatena una tragedia che mostrerà il lato peggiore di ciascuno.

Valentina Ferlan, perché nei vostri film mostrate spesso il lato oscuro delle persone comuni?

«Parte tutto da nostre paure: in “La bella gente” è la voglia di aiutare non sapendo se si riuscirà davvero a fare del bene, in “I nostri ragazzi” guardavamo i nostri figli crescere anche in situazioni che potevano cambiare in un attimo. E adesso invece abbiamo colto la sensazione di paura che c’è in giro, la paura dello straniero, come se fossimo in un momento in cui tutto può succedere, anche se poi in realtà non è così».

La vostra storia ha delle assonanze col delitto di Marco Vannini, ucciso a Ladispoli a casa della famiglia Ciontoli…

«Il film l’avevamo già scritto: volevamo capire come una persona può reagire se qualcuno entra nella sua casa di notte. Il caso di Vannini è diverso ma, quando è avvenuto, la reazione dei presenti ha confermato alcune nostre idee».

Non giudicate mai i vostri personaggi, anche quando sono moralmente condannabili. Perché?

«Per la nostra curiosità della figura dell’uomo in senso tondo. L’uomo non ha una faccia soltanto: è incredibile come la stessa persona che in un campo fa cose meravigliose poi magari torni a casa e picchi la moglie. È un concetto che, pur portato all’estremo, riguarda tutti noi: anche se non si hanno propensioni alla violenza, in situazioni che fanno barcollare le nostre sicurezze tutto può succedere».

Lei e suo marito lavorate insieme da quasi trent’anni: qual è il vostro metodo?

«Io butto giù la base tra soggetto e trattamento, Ivano entra a gamba tesa sulla prima bozza di sceneggiatura. E lì sono le prime note dolenti, perché ci sono sempre cose a cui io sono attaccata e lui magari vuole togliere. Alla fine troviamo un equilibrio nella soluzione finale. La cosa positiva è che sai di essere accettata anche se ti toccano qualcosa che hai scritto, la nota dolente è che lavori sempre».

Le è mai venuta in mente una storia ambientata a Trieste?

«Non ancora. Adesso è mancato anche mio padre, quindi non ho più la famiglia a Trieste. Per me è un po’ doloroso perché ogni luogo è legato a qualcuno che non c’è più e, essendo andata via a 15 anni, a parte una cara amica non ho avuto il tempo di costruire molte amicizie. Per ora ho troppa malinconia legata alla città».

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