Nella campagna di Russia l’epopea dell’Italia sconfitta

di PIETRO SPIRITO
Italiani brava gente. La campagna di Russia 1941-43 è e rimane uno dei buch neri della storia d’Italia, sia per come venne condotta, sia per gli effetti che ancora oggi scontiamo. La recente scoperta di una fossa comune a Kirov con i resti di prigionieri italiani, tedeschi e ungheresi morti probabilmente durante il trasferimento in treno verso i campi di prigionia sovietici, dopo essere stati catturati nel ribaltamento del fronte russo nel gelido inverno 1942-1943, è solo un segno di quell’immane tragedia che inghiottì 95mila soldati italiani sui 230mila partiti, mentre altri 120mila tornati in patria furono messi da parte, perché «con il loro repertorio drammatico di sofferenze, che sembravano impossibili, erano la prova vivente di un’avventura militare sconsiderata, del fallimento del regime e del paese. Si decise perciò di non dare troppa pubblicità e lasciare che il tempo portasse tutto nell’oblio».
Ce lo ricorda . Maria Teresa Giusti, che nel suo libro “La campagna di Russia 1941-1943” (Il Mulino, pagg. 365, euro 26,00) tenta una nuova lettura di quell’epopea entrata nell’immaginario collettivo grazie a racconti come “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi (1963) o film quali, appunto, “Italiani brava gente” di Giuseppe De Santis (1965). Attingendo fra l’altro a fonti primarie tratte dagli archivi russi, e a testimonianze dirette come i diari dei soldati conservati all’Archivio diaristico nazionale di Pieve di Santo Stefano oltre che a interviste ai reduci, Giusti tenta un’analisi riassuntiva, ed esaustiva, di quella che definisce la campagna più disastrosa e inutile della guerra fascista.
Quando nel giugno del 1941 Hitler scatenò l’Operazione Barbarossa, nelle sue intenzioni una “Blitzkrieg”, una guerra lampo che doveva durare pochi mesi e travolgere l’Unione Sovietica, Mussolini volle partecipare a tutti i costi. Una presenza non voluta e non richiesta, perché per Hitler la guerra all’Urss metteva in ballo il futuro della stessa Germania: il Führer «spiegò ai comandi che la distruzione dell’Unione Sovietica, con le sue “immense ricchezze”, avrebbe reso la Germania “inattaccabile”». Era dunque un «confitto fra due ideologie», una «lotta per la sopravvivenza», una guerra che, già sulla carta, doveva essere di una violenza inaudita: «Per la prima volta - nota Giusti - gli ordini espressi nei decreti autorizzavano lo stesso esercito a commettere omicidi, “coinvolgendo la Wermacht nella politica nazionalsocialista di sterminio”». Questo spiega le terrificanti efferatezze compiute dai tedeschi sul fronte orientale (solo per la parte sovietica ci furono 27 milioni di morti), i massacri, gli stupri, ogni genere di violenza possibile di fronte alla quale oggi i criminali fanatici dell’Isis fanno la figura dei dilettanti.
L’Italia non aveva nulla a che fare con tutto ciò, tuttavia essendo una «lotta contro il comunismo» non poteva mancare alla festa. Così nel maggio del 1941 Mussolini incaricò il capo di Stato Maggiore Ugo Cavallero di preparare un Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir) con 62mila uomini inquadrati in tre divisioni sotto il comando dell’undicesima armata tedesca. Un anno dopo, visti i primi successi della campagna e la veloce avanzata del Gruppo d’armate Sud che sbaragliava le truppe dell’Armata Rossa già indebolite dalle purghe di Stalin, Mussolini decise, «raschiando il barile», di inviare due corpi d’armata sotto il comando italiano, e il Csir confluì nell’Armir. Sappiamo come andò a finire: l’Armir fu schierata lungo le sponde del Don dove, fra il dicembre 1942 e il gennaio del 1943, venne annientata dall’offensiva sovietica, costringendo oltre centomila disperati a una ritirata disumana in un deserto di ghiaccio.
Nel suo saggio Maria Teresa Giusti - già rodata dal precedente “I prigionieri italiani in Russia” (Il Mulino, 2014) - elenca numeri, fatti, testimonianze ponendo particolare attenzione all’aspetto umano oltre che militare degli italiani in Russia. L’atteggiamento assai meno brutale di quello germanico nei confronti della popolazione russa e dei prigionieri trova conferma nei documenti, così come le forti tensioni tra i militari italiani e gli alleati tedeschi.
Altri miti invece vengono sfatati: non è vero che fanti e alpini furono spediti nelle steppe russe con le scarpe di cartone, ma è vero che la logistica funzionò malissimo, e per esempio migliaia di cappotti con pelliccia e scolta rimasero nei magazzini: «Le responsabilità maggiori - scrive Giusti - delle inadempienze e delle disfunzioni nella distribuzione degli indumenti e dei materiali furono dei comandi operativi più elevati al fronte, il generale Gariboldi e il responsabile dell’Intendenza dell’8.a armata, generale Biglino: essi fecero consegnare con eccessiva e colpevole parsimonia gli equipaggiamenti invernali accantonati nei magazzini».
Storia molto italiana quella della disfatta di Russia, dalla quale ancora oggi, su vari fronti, c’è molto da imparare.
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