Nella battaglia di Lissa di 150 anni fa c’è il seme dell’Europa che sarà

Libri e iniziative ricordano lo scontro navale del 1866 fra Austria e Regno d’Italia che ha segnato un’epoca
Di Pietro Spirito

di PIETRO SPIRITO

Centocinquat’anni fa, fra il 18 e il 20 luglio 1866, nel pieno della terza guerra d’indipendenza le flotte della Marina da Guerra dell'Impero austriaco e della Regia Marina del Regno d'Italia si fronteggiarono in quella che viene ricordata come la battaglia di Lissa. Nonostante il comandante in capo della flotta italiana, l’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, dopo il combattimento fosse rientrato ad Ancona cantando vittoria - prima di essere processato e degradato perché colpevole di imperizia, negligenza e disobbedienza - lo scontro fu vinto senza ombra di dubbio dalla k.u.k. Kriegsmarine: l’Italia perse le corazzate Re d’Italia e Palestro (con 630 morti e 40 feriti), l’Austria-Ungheria neanche una nave (i morti furono 38 e i feriti 138). In occasione della ricorrenza è uscito in Slovenia il libro “Wilhelm von Tegetthoff e la battaglia di Lissa”, di Igor Grdina, mentre ieri a Trieste per il ciclo “Adriatico, una storia scritta sull’acqua” del Circolo Marevivo Alessandro Marzo Magno, autore del libro “Il leone di Lissa” (Il Saggiatore) ha tenuto una conferenza sull’argomento.

Poca cosa, in realtà, per l’anniversario di un evento che oggi assume una valenza particolare, per un miscuglio di caratteri che contraddistinse quei fatti. La battaglia di Lissa fu il primo grande scontro navale in cui vennero impiegate navi a vapore corazzate, e l’ultima nella quale furono effettuate deliberate manovre di speronamento, esattamente come al tempo dei Fenici. Fu una battaglia in cui si confrontarono su fronti opposti ufficiali che avevano studiato nella stessa scuola, l’Accademia navale austriaca di Vienna, e nel combattimento furono utilizzate artiglierie obsolete assieme ad armi di nuova concezione (cannoni ad anima liscia e rigata). Fu anche uno scontro che mise italiani contro italiani, visto che i marinai della flotta austriaca erano per il 60 per cento veneti, triestini e dalmati di madrelingua: a bordo la lingua franca era il dialetto veneto, e i marinai della Ferdinad Max salutarono l’affondamento del Re d’Italia gridando “Viva San Marco”. Ancora, nella somma di errori che portarono la giovanissima Italia alla sconfitta (equipaggi impreparati, navi afflitte da difetti tecnici, comandanti divisi da rivalità personali e politiche) si prefigurano tutti i vizi che avrebbero contraddistinto la non lunga storia di un Paese arrivato con grande fatica all’unità. Fu dunque uno scontro consumato lungo lo spartiacque fra vecchio e nuovo, fra antico e moderno, fra etnie uguali e divise, in un miscuglio di lingue e dialetti in cui si può già sentire l’eco dell’Europa che sarà.

Fra le varie e complesse fasi della battaglia il momento culminante dello scontro fu l’affondamento dell’ammiraglia italiana, la corazzata Re d’Italia. Il comandante della flotta austriaca, Wilhelm von Tegetthoff, che amava la tattica degli speronamenti, caricò a testa bassa la formazione italiana. Fu un duello violentissimo, fra tentativi di speronamento, striscia. te lungo scafi e murate, e un cannoneggiamento così intenso che il fumo toglieva ogni visibilità. Nella fase decisiva della battaglia il Re d’Italia, colpito al timone da una bordata, si trovò immobilizzato di fronte all’ammiraglia avversaria la Ferdinand Max. Quello che avvenne in quei minuti è un cascato della memoria collettiva, oltre che della storiografia marittima, che sconfina nella leggenda: l’ammiraglio von Teghetthoff quando vide la corazzata nemica immobile di fronte a sè gridò in dialetto al timoniere «Daghe dosso, Nino, che la ciapemo», prima di lanciare la nave a tutta velocità contro il Re d’Italia. Lo sperone della Ferdinand Max si infilò sotto la corazzatura della nave, aprendo un squarcio di 15 metri quadrati. La pirofregata italiana affondò in pochi minuti, trascinando con sè in fondo al mare 27 ufficiali e 364 tra sottufficiali e marinai, il comandante Faà di Bruno, il deputato Pier Carlo Boggio (che, non sapendo nuotare, annegò insieme al tenente di vascello Alfredo Bosano che cercava di salvarlo), il pittore Ippolito Caffi, imbarcato sulla corazzata per poter osservare e dipingere la battaglia. «Uomini di ferro su navi di legno hanno sconfitto uomini di legno su navi di ferro», sembra abbia detto poi Teghetthoff commentando la vittoria, visto che la flotta italiana schierava dodici corazzate e 14 unità in legno contro sette corazzate e 19 navi di legno. Nel 2005 è stato ritrovato a oltre cento metri di profondità il relitto del Re d’Italia, mangiato dal mare ma ancora integro. E un po’come quel relitto, la memoria della battaglia di Lissa rimane una lezione e un monito fra i tanti tasselli che compongono la parola Europa.

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