Nel Lazzaretto Novo ai tempi della peste nera tra erbe disinfettanti e maschere protettive

La vita sull’isola veneziana nel 1576 dove erano ricoverate diecimila persone in quarantena  

Vita quotidiana

Giovanna Pastega

Nel 1576, durante una delle più spaventose epidemie di peste nera che colpirono Venezia, nel Lazzaretto Novo erano confinate in quarantena ben diecimila persone. A quanto riferisce Francesco Sansovino, figlio del celebre architetto Jacopo, che lì fu ricoverato per 22 giorni, tale era il flusso di gente che quotidianamente arrivava nell’isola, che il Senato veneziano autorizzò che i sospetti e gli ammalati venissero ammassati su barconi ancorati alla fonda nei canali intorno.

Ma come si svolgeva all’epoca la vita nel Lazzeretto Novo?

Ogni giorno, racconta il Sansovino, per purificare l’aria dal morbo si accendevano fuochi di legno di ginepro fatto arrivare appositamente dall’Istria e dalla Dalmazia e i ricoverati venivano visitati. I medici erano rigorosamente protetti da una maschera con un naso/becco lunghissimo e adunco che veniva riempito di spezie ed erbe aromatiche disinfettanti (come il rosmarino, l’aglio, il ginepro) per filtrare le impurità dell’aria che si pensava trasportasse la malattia.

Tutte le navi che giungevano a Venezia da luoghi “interdetti” perché toccati dall’epidemia o prive di certificati di idoneità sanitaria venivano prese in consegna dai guardiani del Magistrato alla Sanità: una bandiera issata dava il segnale di pericolo. I guardiani del Lazzaretto scortavano i passeggeri delle navi agli alloggi nell’isola e poi sovrintendevano a tutte le operazioni di sbarco e di espurgo delle merci sospette di contagio, che venivano sottoposte a una rigidissima quarantena e per questo stipate nel Tezzon Grando, un ampio edificio nel centro dell’isola. Materialmente le operazioni di trasporto e di decontaminazione (sborro) delle merci venivano compiute da speciali facchini, detti bastazzi perché portavano i pesi (il basto), riconoscibili dalle larghe bretelle rosse o bianche incrociate sul petto o sulla schiena. Tutte le merci in quarantena venivano rigorosamente “disinfettate”: le pelli, le sete e i drappi in particolare venivano esposte all’aria e al sole, le lane immerse nell’acqua bollente e persino la corrispondenza veniva “fumigata” su bracieri con profumi speciali, le spugne invece sciacquate nell’acqua salata e gli animali piumati puliti con aceto. Per sapere dove riportare le merci dopo le varie operazioni, i bastazzi usavano ricopiare lungo le pareti del Tezzon Grando le iniziali e i monogrammi incisi sui sigilli in piombo degli imballaggi che indicavano le proprietà o le provenienze. Queste scritte risalenti alla fine ’500 e tracciate con colore rosso-bruno, a base di ossido di ferro, sono ancora oggi chiaramente visibili.

Il Priore incaricato di gestire il Lazzaretto era un laico nominato dal Magistrato alla Sanità per quattro anni: doveva tenere appositi registri per segnare tutti i movimenti di merci e passeggeri, i testamenti e gli inventari. Circolava armato e vestiva con un soprabito azzurro, calzoni neri, calze rosse e un cappello a larghe tese. Teneva tutte le chiavi dell’isola e suo era il compito di chiudere le porte all’alba e al tramonto. Doveva sovrintendere personalmente alle operazioni di espurgo, effettuare in prima persona la fumigazione delle lettere con crivello e foghèra, sequestrare le armi, impedire schiamazzi, giochi d’azzardo o che si praticasse la pesca nei canali intorno all’isola. Doveva poi badare al rifornimento dei pozzi, osservare che i vivandieri porgessero ai ricoverati i cibi con ceste fissate su lunghe pertiche. Infine era suo l’onere di firmare le “Fedi di sanità”, cioè i certificati di abilitazione sanitaria dopo i periodi di contumacia, facendo particolare attenzione che i passeggeri, prima di andarsene, ripagassero le spese per eventuali danni agli alloggi. Se qualcuno si ammalava doveva immediatamente farlo separare dagli altri, avvisando il magistrato e ricoverandolo nel Lazzaretto Vecchio. Doveva infine badare all’operato di medici, preti e pizzigamorti (i becchini), facendo subito seppellire i cadaveri infetti nella calce viva. Durante alcuni scavi archeologici nelle aree di sepoltura dell’isola alcuni anni fa è emersa una singolare scoperta: è stato rinvenuto lo scheletro di una donna con un mattone conficcato in bocca. Il ritrovamento ha subito fatto pensare alle antiche pratiche di esorcismo contro i vampiri, che anche a Venezia all’epoca circolavano: una nota leggenda di origine polacca raccontava di un non-morto chiamato “divoratore della notte” o “masticatore del sudario” che nella tomba masticava la tela che lo avvolgeva, poi le proprie mani e anche i cadaveri vicini fino a trasformarsi in un vampiro. Secondo gli archeologi gli antichi veneziani che operavano nel lazzaretto durante le pestilenze, dovendo riaprire più volte e velocemente le fosse comuni, si sarebbero imbattuti in un corpo con caratteristiche di decomposizione particolari, tali da indurli a credere di trovarsi di fronte ad una “divoratrice della notte”: il sudario macchiato dai liquami corporei in corrispondenza della bocca, forse anche bucato per effetto dell’acidità, e la pelle scollata dalle mani poteva all’epoca far pensare a una “masticatrice di sudario”. Così temendo che la “quasi-morta” potesse fortificarsi e diffondere il morbo, come all’epoca si credeva, le avrebbero inserito un mattone in bocca e poi l’avrebbero riseppellita per evitare che tornasse in vita. —

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