Nel dopoguerra gli agenti di Tito in Italia preparavano l’insurrezione dei comunisti

Esce oggi in libreria il saggio di Mario J. Cereghino e Giovanni Fasanella “Le menti del doppio Stato” basato su documenti dell’intelligence 

Esce oggi nelle librerie il saggio di Mario J. Cereghino e Giovanni Fasanella, “Le menti del doppio Stato - Dagli archivi angolamericani e del servizio segreto del Pci il perché degli Anni di Piombo” (Chiarelettere, pagg. 347, euro 19). Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un brano del libro dove si parla dei servizi segreti di Tito attivi in Italia.

Mario J. Cereghino

Giovanni Fasanella

L’organizzazione che coordinava le formazioni segrete titine attive in Italia era guidata da un montenegrino, Arsenio «Arsa» Milatović, che agiva sotto copertura all’interno della delegazione jugoslava presso l’Allied Advisory Council (Aac), a Roma. «Arsa» aveva cominciato ad addestrare i gruppi d’azione dell’apparato comunista alla «guerra per bande e alla guerriglia urbana», ispirandosi all’esperienza dell’esercito di liberazione jugoslavo. Per gli «sforzi rivoluzionari» in Italia, l’Ozna [il Servizio segreto del maresciallo Tito] disponeva di «forti mezzi finanziari», si parlava addirittura di «alcuni miliardi di lire». I primi moti al Nord sarebbero dovuti scoppiare nel marzo 1946, «secondo le strategie e le tattiche già sperimentate in Jugoslavia» e con «l’assistenza bulgara». L’Ozna aveva distribuito i suoi sicari in centinaia di piccoli gruppi a compartimenti stagni, disseminandoli in tutta l’Italia centrosettentrionale. Erano le troike, perché composte ognuna da tre elementi specializzati in ogni genere di sabotaggio, sequestri di persona, rapine e omicidi politici. E naturalmente nell’arte del doppio gioco, perché capaci di penetrare sia la sinistra insurrezionalista sia la destra neofascista, che si stava anch’essa riorganizzando in gruppi armati clandestini. Non a caso, gli uomini delle troike erano stati arruolati tra gli ex partigiani titini in contatto con i garibaldini italiani, ma anche tra gli ex agenti italiani e tedeschi dei Servizi nazifascisti e gli ustascia croati che durante la guerra avevano collaborato con gli occupanti italotedeschi. La rete clandestina del Pci, l’apparato, era guidata da militari forgiati nella lotta di Liberazione, gente addestrata a Mosca o dalle forze titine. Si era nutrita del mito della rivoluzione comunista. E l’idea di deporre le armi, ora che l’obiettivo sembrava davvero a portata di mano, non era proprio nelle loro intenzioni. Grieco, Longo, Secchia, Moscatelli: era questo il quartetto al comando della rete clandestina comunista. Al suo interno, a un livello ancora più segreto, agivano le cellule terroristiche dei «Gruppi d’azione». Quelle costituite dall’Ozna e dalle sue troike. E che ben pensarono di riesumare il nome glorioso delle formazioni partigiane attive durante il periodo bellico nelle operazioni di guerriglia urbana: Gruppi d’azione patriottica. I «nuovi Gap» comparvero negli allarmati rapporti angloamericani a partire dall’estate-autunno del 1945. E non solo con riferimento alla drammatica situazione nel Nordest. La rete gappista si era ormai estesa al resto dell’Italia settentrionale e centrale. Emilia e Toscana erano il nuovo epicentro della riorganizzazione gappista, come segnalò il controspionaggio alleato in un lungo memorandum nel novembre 1945. Fino a quel momento, soltanto nell’area intorno a Bologna, i «nuovi Gap» si erano resi responsabili dell’«eccidio a sangue freddo di circa 600 persone», senza contare l’altrettanto elevato numero di «persone sequestrate» e il cui destino continuava a essere «ignoto». Le cellule terroristiche erano composte da giovani tra i diciotto e i venticinque anni, convinti che «la violenza e la forza bruta siano sinonimo di patriottismo», ed erano controllati da elementi «intellettualmente dotati». Ma al loro interno non vi erano solo ex partigiani ed ex repubblichini. Emerse insomma che si trattava di formazioni composte anche da «molti criminali comuni», il cui passato era noto soltanto ai coordinatori delle squadre paramilitari. I quali li convincevano a compiere azioni efferate sotto la «minaccia di denuncia» penale alle autorità alleate e italiane. Spesso, però, quei malavitosi venivano «eliminati» dai loro stessi capi, subito dopo aver partecipato a massacri o aver compiuto delitti selettivi su commissione. In pratica, si trattava di «formazioni clandestine» che avevano seguitato a «prepararsi e ad addestrarsi sulle montagne» anche dopo la Liberazione. Al punto che nel corso dell’estate del 1945, precisa il documento, era possibile udire «il suono dei mitra e delle armi automatiche leggere» nei luoghi più «desolati e accidentati» dell’Appennino toscoemiliano. A Lubiana era stata aperta una «scuola politica comunista» per «allievi italiani», gestita da «ufficiali sovietici» e da agenti della Vojska Državna Varnost (Vdv), ossia l’esercito per la difesa dello Stato, uno dei tanti organismi di spionaggio che avevano preceduto la nascita dell’Ozna. Gli agenti della Vdv erano solitamente reclutati fra i «membri del partito comunista jugoslavo, i criminali comuni, i soggetti particolarmente crudeli e brutali». L’organismo comprendeva inoltre «spie, informatori e delatori» di professione, i quali erano soliti «terrorizzare la popolazione civile con massacri e purghe», operando appunto in collaborazione con malviventi e assassini. A Milano, intanto, i consolati dell’Urss e della Cecoslovacchia fornivano ai «nuovi gappisti» i passaporti per recarsi in Slovenia. Era quindi plausibile, scriveva un rapporto del Cic alleato nel dicembre 1946, che «elementi slavi» fossero ora in una posizione di forza anche «nei Gap riorganizzati». Alla vigilia del 25 aprile, infatti, «un gran numero di slavi di sinistra» era già «al comando dei Gap». (...) —

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