Nei volti delle donne la Trieste vivace della Trieste vivace

In un libro curato da Claudio Ernè le immagini scattate in città da un professionista ancora ignoto

TRIESTE Chissà se è vero che ogni epoca lascia un’impronta sui volti della gente. Forse esiste una fisiognomica del tempo al di là di mode, abiti, acconciature, taglio di barbe e capelli. Qualcosa che connoti l’espressione, lo sguardo, il tratto dei volti, come a fissare la temperie di un determinato periodo storico sui lineamenti, e l’aspetto, di chi quell’epoca la vive e l’attraversa nel tratto sempre troppo breve che gli è dato. Davvero fatti e avvenimenti influenzano lo spirito di ciascuno, ne plasmano l’apparenza? Magari no, siamo ciò che siamo al di là del tempo storico, l’effigie di un antico romano ci somiglia come e quanto un nostro contemporaneo. A prima vista i volti di queste donne suggeriscono un’identità immota: sostituite abiti e pettinature di quegli anni lontani, calatele nei nostri giorni ed eccole qui, potrebbero essere le donne e le ragazze che incontriamo ovunque, che conosciamo, che ci passano accanto. Eppure c’è qualcosa, in queste immagini, che marca la distanza, e porta i segni di una stagione che è stata unica, e limitata.

Il libro a cura di Claudio Ernè, “Volti di donna, volti di città” (Fresco editore, pagg. 84, euro 18,00), con uno scritto di Diana De Rosa, appena uscito nelle librerie raccoglie le più belle fotografie e ritratti di donne realizzate a Trieste da un fotografo ignoto, e ritrovate in una bottega del ghetto, dentro una cassa di legno nero, assieme ad altre centinaia di lastre. Il curatore del libro, Claudio Ernè, ha cercato in ogni modo di dare un’identità al fotografo, per ora senza successo. Ed è con un guizzo di fantasia in più che possiamo immaginare questo fotografo (e se invece fosse donna?) girare per Trieste con una delle prime fotocamere portatili in grado di scattare istantanee come un moderno fotoreporter. È, senza dubbio, come è stato osservato, un autore cui spetta uno spazio di tutto rispetto nella storia della fotografia triestina. Il suo lavoro dimostra una volta in più, notano gli autori del volume, quante e quali realtà i dilettanti di talento sanno spesso cogliere del mondo e delle situazioni in cui vivevano. Ed è in effetti un reportage in arrivo dritto dalla Belle Époque quello che ci restituisce il libro di Ernè.

Gli storci tendono a racchiudere nel termine Bella Époque - l’epoca cui risalgono i ritratti contenuti in questo libro - gli anni che vanno dal 1870 al 1914, anni in cui l’Occidente e l’Europa si affacciano alla contemporaneità, subito prima dell’immenso baratro della Grande guerra. Sono gli anni in cui la meccanica e la scienza fanno passi da gigante, l’uomo tecnologico manda i suoi primi vagiti al mondo, gli esploratori - e gli Stati - invadono terre lontane e a loro sconosciute. Nel 1871 Meucci brevetta il telefono, in Francia nasce la Comune di Parigi, Roma diventa capitale d’Italia, dall’altra parte dell’oceano un incendio di tre giorni divora Chicago. E nei mesi e negli anni successivi tutto accelera: compaiono l’illuminazione elettrica, i vaccini, le ferrovie sono sempre più estese e organizzate, volano gli aeroplani... la freccia del tempo contrae i limiti del mondo, dal più povero al più ricco quasi. non c’è chi non percepisca lo scorrere della vita come un percorso di speranza. Debellata la maggior parte delle epidemie e ridotta la mortalità infantile, gli abitanti del pianeta toccano il miliardo e mezzo, in rapida crescita. Produzione industriale e commercio mondiale raddoppiano in brevissimo tempo. L'alta borghesia celebra i risultati raggiunti in pochi decenni di egemonia con esposizioni universali in cui si mettono in mostra le ultime meraviglie della tecnica, mentre esploratori e missionari tengono affollate conferenze in cui raccontano grandezze e miserie di mondi lontani. E le guerre, se ci sono, sono anch’esse lontane.

Gli abitanti delle città scoprono il piacere di uscire, anche e soprattutto dopo cena, di andare nei caffè e assistere agli spettacoli teatrali. In tutta Europa nascono e si intrecciano correnti artistiche che mettono al centro l’uomo e la sua capacità di aspirare al bello e alla felicità. E sono, questi, gli anni in cui le donne trovano un ruolo nuovo nella società, gli anni del lavoro sottopagato e sfruttato, certo, ma anche gli anni dell’emancipazione femminile, delle suffragette, della lotta per il diritto al voto, il diritto ad avere un posto libero e riconosciuto nel mondo.

In quel tempo Trieste è all’apice della sua espansione e della sua modernità. La perdita dopo le guerre d’indipendenza della gran parte del Friuli e soprattutto del Veneto, con i loro porti ed il personale marittimo qualificato, accresce l'importanza economica e strategica di Trieste per l'impero austroungarico, che ha nella città giuliana il suo principale sbocco marittimo e commerciale. A dispetto delle tensioni politiche che attraversano la città, sempre più punto d'incontro fra le linee di comunicazione convergenti dall'Italia, dal centro Europa e dai Balcani, lo stato centrale investe nello sviluppo e nel potenziamento delle sue infrastrutture. Le navi del Lloyd Austriaco viaggiano ovunque e sono una finestra spalancata sulle plaghe più remote. Caffè e teatri sono pieni, animati da scrittori e artisti destinati a segnare il Novecento e oltre. Trieste è fucina di esploratori e pionieri. È qui che tra il 1872 e il ’74 nasce e prende forma la drammatica spedizione polare austroungarica a bordo della nave «Admiral Tegetthoff», che avrebbe portato un pugno di uomini - quasi tutti triestini, istriani, fiumani e dalmati - per 812 giorni nell'inferno di ghiaccio del Polo Nord, alle prese con temperature fino a -50 gradi, aggressioni di orsi polari e tempeste di neve. Ed è qui che Gianni Widmer, uno dei primi aviatori, nel 1911 stupisce una folla enorme volando con il suo Blériot da Trieste fino a Grado.

La borghesia cittadina è un ceto illuminato: chi produce, chi commercia, sa che una città gravata da sacche di povertà e di indigenza è un pericolo per la propria stessa sopravvivenza. Chi ha soldi e capitali investe nella cultura e nella scienza, ma anche nell’assistenza, in quello che oggi chiamiamo welfare, con l’idea che una società migliora e la ricchezza si alimenta a partire dai suoi strati più bassi.

Trieste cambia volto: architetti come Max Fabiani e Eugenio Geiringer mischiano stili e tendenze - dalla secessione al Liberty - portando ventate di modernità in un tessuto urbano che fa assomigliare Trieste a una piccola New York: un luogo dove tutto è possibile, dove si incrociano destini e fortune, idee e progetti. L’arte e il pensiero interpretano e rappresentano le linee positive dell’epoca, ma anche il loro contrario: l’aspirazione a un “altrimenti” e un altrove metafisco - espresso da menti come quella di Carlo Michelstaedter - fa da contrappunto al benessere, e segna come un sismografo quelle tensioni e pulsioni sotterranee - irredentismi, nazionalismi, contrasti etnici - che di lì a poco avrebbero sgretolato e affogato nel sangue imperi e vecchi assetti mondiali.

Nei volti, nelle espressioni di queste donne ritratte a passeggio per Trieste, sulle Rive, nei caffè, sembra di leggere tutto ciò. Tantopiù in quanto l’ignoto fotografo ha saputo cogliere il movimento, l’istante, il palpito di vita che sostiene ogni figura. E ha saputo animarlo, questo palpito di vita, come in quegli anni sta dimostrando di poter fare il cinematografo, la nuova arte capace di mettere in moto le figure e farle agire. Nei volti delle donne si riflette il volto di Trieste, le sue mille anime, il suo stare in bilico tra passato e futuro, la certezza di una felicità possibile e l’ansia per un domani che di certezze non può averne.

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