Navi e bandiere rosse cent’anni fa scoppiava la rivolta di Cattaro

Il primo febbraio del 1918 insorsero gli equipaggi  della squadra navale austroungarica alla fonda

La rivolta militare scoppiata nel febbraio del 1918 fra gli equipaggi della squadra navale austroungarica alla fonda nelle Bocche di Cattaro è stata a lungo sottaciuta o perfino ignorata dalla storiografia italiana; eppure essa rappresenta uno dei momenti più alti di rivendicazione politica nel quadro delle lotte che scossero il vecchio impero asburgico negli ultimi mesi di guerra. Non solo l’aspirazione alla pace, ma anche la volontà di riscatto nazionale e sociale furono infatti alla base di quel movimento, promosso da numerosi marinai, in massima parte croati, sloveni e italiani, confinati sin dall’inizio delle ostilità in quell’estremo lembo costiero della monarchia danubiana.

Agli inizi del conflitto, a Cattaro erano di stanza soltanto le unità più vecchie e di minor tonnellaggio, mentre il grosso della flotta austriaca era alla fonda a Pola. Nel corso della guerra, però, la base di Cattaro aumentò progressivamente d’importanza. Nell’estate del 1917, infatti, con l’apertura di un nuovo fronte balcanico che coinvolgeva la Grecia, la squadra di Cattaro contava una cinquantina di unità, ancorate in ordine sparso lungo tutta l’insenatura. La bassa forza della flotta era formata da un contingente di circa diecimila uomini, sottoposti a una disciplina ferrea e costretti giornalmente, per evitare gli “effetti deleteri” di un ozio forzoso che durava da quattro anni, a estenuanti quanto inutili esercitazioni militari, causa prima di un sordo rancore verso l’altezzosa e arrogante ufficialità tedesca.

Ad abbattere il morale della truppa, già messo a dura prova dalla lontananza da casa, contribuiva poi il continuo peggioramento delle condizioni di vita, con la scomparsa pressoché totale dei generi di consumo e alimentari. Per sopravvivere bisognava ricorrere a quell’arte dell’arrangiarsi fatta di espedienti e di piccoli traffici quotidiani con la popolazione locale. A Cattaro, però, anche se la base era lontana dai centri della vita politica e sociale dell’Impero, si aveva una conoscenza abbastanza precisa di quanto stava accadendo nell’interno e sui vari fronti di guerra. Le notizie arrivavano in mille modi, innanzitutto attraverso i racconti di quanti tornavano dalle brevi licenze, e poi attraverso la lettura dei giornali che superavano i rigidi controlli della censura. Si sapeva così dello spirito d’insofferenza che serpeggiava ovunque e delle prime agitazioni di fabbrica; e si sapeva anche che nei boschi della Croazia avevano trovato rifugio decine di migliaia di disertori.

Ma quel che suscitava uno straordinario interesse erano naturalmente i fatti di Russia, seguiti nella loro rapida evoluzione dai primi moti operai di Pietroburgo al colpo di Stato bolscevico. E fu proprio il nuovo progetto politico dell’ottobre sovietico, salutato da Il Lavoratore con un editoriale dall’emblematico titolo “Il mondo è nostro”, ad alimentare nei più la certezza di un ricomponimento del conflitto attraverso un confronto diretto con il sistema borghese. L’annuncio dell’armistizio firmato il 2 dicembre 1917 tra le Potenze Centrali e la Russia dei Soviet trovò dunque a Cattaro una situazione già matura: subito si formò un comitato clandestino, composto da marinai di varie nazionalità, allo scopo di chiedere miglioramenti economici e, se possibile, la fine della guerra.

L’anima del gruppo era un ceco, il cannoniere Franz Rasch; insieme a lui erano il viennese Zagner, il triestino Angelo Pahor e alcuni socialisti di fede internazionalista, che stabilirono contatti con gli operai di Teodo e presero a distribuire materiale sovversivo a bordo delle navi. Quest’intenso lavorio, come documentano i rapporti dell’epoca, non tardò a generare un clima di viva effervescenza. Ormai si gridava dappertutto: “Viva Lenin”, “Vogliamo pane!”, “Abbasso la guerra!”. Gli ufficiali, fortemente turbati, non riuscendo a individuare i capi del movimento, si limitavano a leggere più volte al giorno i paragrafi del codice militare che prevedevano la pena di morte per gli ammutinamenti.

La situazione precipitò agli inizi del nuovo anno. Saputo degli scioperi scoppiati nei centri siderurgici e nelle maggiori città del Paese, il comitato decise di passare all’azione: a dare il via alla rivolta sarebbe stato un colpo di cannone sparato dall’ammiraglia.

A mezzogiorno del primo febbraio, al segnale convenuto, la banda della nave St. Georg, anziché suonare il regolamentare inno imperiale, intonò La Marsigliese. Nel contempo, mentre un marinaio si arrampicava sull’albero di trinchetto per togliervi la bandiera austriaca e sostituirla con un drappo rosso, gli ufficiali furono circondati e rinchiusi nelle stive, sotto sorveglianza armata. Un quadro abbastanza puntuale della dinamica dei fatti è offerto dal giornale di bordo della St. Georg: “Il comandante al suo apparire sul ponte fu fatto segno a colpi di fucile. (...) Numerosissimi oggetti vennero gettati fuori bordo. All’albero trinchetto della nave ammiraglia venne innalzata la bandiera rossa”.

La protesta si estese alle altre unità e su tutte, tranne che sul Novara e sul caccia Czepol, fu inalberata la bandiera rossa e si istituirono organismi rivoluzionari. Il giorno dopo i ribelli, che avevano ormai il controllo di tutte le navi, cercarono di consolidare le loro posizioni con alcuni colpi di mano sulla terraferma, diretti da Franz Rasch. Sbarcato nei pressi di Zolenik, Rasch s’impadronì senza spargimento di sangue della stazione e del forte omonimo, facendo prigionieri centoventi soldati della territoriale. Per la scarsezza di uomini e mezzi, però, Rasch non poté portare a termine la sua missione, che prevedeva l’occupazione dell’intero sistema fortificato. Anzi, il forte di Castelnuovo, rafforzato con le truppe lealiste, aprì ripetutamente il fuoco contro la Kronprinz Rudolf, danneggiandola in modo grave e ferendone mortalmente il comandante, il viennese Zagner.

Viste le difficoltà sorte, si ritenne allora opportuno convocare una nuova riunione del comitato per decidere sul da farsi. Mentre si stava ancora discutendo, sopraggiunse un radiotelegrafista con il messaggio che la terza divisione navale, al comando dell’ammiraglio Vukovic, si stava muovendo da Pola alla volta di Cattaro per reprimere l’insurrezione. La situazione degli insorti si stava facendo critica. All’aspirante ufficiale Sesan venne affidato l’incarico di partire col suo idrovolante per controllare la posizione raggiunta dalla squadra di Pola, ma questi preferì attraversare l’Adriatico e darsi prigioniero agli italiani.

Si tentò allora di organizzare un estremo tentativo di difesa, ma le navi e i sommergibili che avrebbero dovuto bloccare l’ingresso delle Bocche avevano la macchine guaste e sarebbero occorse sei ore per ripararle. Il mattino del 3 febbraio, la divisione di Vukovic si presentò davanti a Castelnuovo. Alle navi che avevano partecipato alla rivolta fu concessa mezz’ora di tempo per arrendersi.

Cominciarono le prime defezioni: l’Helgoland e il Novara, ammainata la bandiera rossa, misero in libertà gli ufficiali. Seguirono gli arresti. Circa quattrocento ribelli, fra i più attivi, vennero concentrati in un baraccamento nei pressi del borgo di Skaljari, dove a tarda notte fu letto loro l’elenco di quanti sarebbero stati deferiti all’autorità giudiziaria militare. Il 7 febbraio, quaranta marinai comparvero davanti alla corte marziale.

L’avvocato Mitrovic, che li assisteva, riuscì con cavilli procedurali a stralciare gli atti processuali di diciotto imputati, che furono rimessi a un tribunale ordinario. Per gli altri marinai rimase in piedi l’accusa di sedizione.

La sentenza fu pronunciata alle quattro del mattino dell’11 febbraio. Franz Rasch, Antonio Grabar, Matteo Bernevic e Jerko Siskoric vennero condannati alla perdita dei gradi e alla fucilazione. I loro compagni si videro infliggere pene che oscillavano tra i venti e i trent’anni di carcere.

Condotti sul luogo del supplizio alle prime luci dell’alba, i quattro morituri rifiutarono la benda e si comportarono con estrema dignità e coraggio. Fallita per la disorganizzazione e per le incertezze dimostrate dagli insorti, la rivolta di Cattaro, non fu però vana. Lo spirito di protesta si sarebbe ben presto esteso ad altre unità dell’esercito e avrebbe trovato sbocco in tutta una serie di sommosse militari che, da Judenburg al Piave, avrebbero accelerato il processo di disgregazione della vecchia monarchia.

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